Blog a cura di Raffaella Ilari con approfondimenti e interviste agli organizzatori, agli ospiti e al pubblico del 16° Festival di Resistenza.
Sui nastri di Gianni è incisa la vita
Intervista a Caroline Baglioni
Quinto spettacolo in concorso al Festival Teatrale di Resistenza è “Gianni”, scritto ed interpretato dalla giovane attrice umbra Caroline Baglioni, con la supervisione alla regia di Michelangelo Bellani e c.l.Grugher, una produzione de La Società dello Spettacolo, vincitore del Premio Scenario per Ustica 2015 e del Premio In-Box 2016. Una biografia intima e drammatica, quella di Gianni, lo zio afflitto da problemi maniaco-depressivi, che diventa per Caroline un percorso di ricerca performativa, un lavoro sulla memoria personale e quella collettiva.
«Gianni non stava mai bene – scrive Caroline – Se stavamo da me voleva tornare a casa sua. Se stava a casa sua voleva uscire. Se era fuori voleva tornare dentro. Dentro e fuori è stata tutta la sua vita. Dentro casa. Dentro il Cim. Dentro la malattia. Dentro al dolore. Dentro ai pensieri. Dentro al fumo. Dentro la sua macchina. E fuori. Fuori da tutto quello che voleva. Non aveva pace Gianni. Ogni centimetro della sua pelle trasudava speranza di stare bene. Stare bene è stata la sua grande ricerca. Ma chi di noi non vuole stare bene?»
Caroline, chi era Gianni?
Gianni era mio zio, morto suicida nel febbraio 2001, una persona che ho conosciuto e frequentato quando ero piccola, in quanto mio padre decise di prendersene cura e portarlo a casa nostra dopo la morte dei genitori. Visse con noi due anni. Era una figura incredibile agli occhi miei – io avevo circa 15 anni – e a quelli di mio fratello. Lo spettacolo nasce dal ritrovamento di alcune sue audiocassette nel 2004 in una scatola di dischi, sulle quali aveva inciso alcuni stralci della sua vita che risalivano agli anni ’80, con precisione dall’84 all’86. È sempre stata una cosa alla quale sono tornata a distanza di tempo, quei nastri mi hanno accompagnata. Pian piano ho sempre più approfondito quello che lui diceva, tanto da trovarmi sempre più vicina a lui.
L’idea di fare uno spettacolo era sempre stata nella mia testa perché – già facevo teatro, – mi ero subito resa conto che fosse un materiale straordinario quella che avevo in mano ma non avevo ancora i mezzi e le idee chiare per costruirne uno spettacolo. Mezzi e idee che sono arrivati nel 2015 quando decisi di partecipare al Premio Scenario dopo aver raccontato questa storia a La società dello spettacolo.
Da cosa nasce il bisogno di raccontarla?
Il bisogno di raccontare questa storia è nella storia stessa. È la storia che chiede di raccontarsi. Come un testamento.
Cosa ha inciso Gianni in questi nastri?
In ognuno dei tre nastri c’è un’ambientazione diversa. Il primo, che risale al 1984, è ambientato in casa. Gianni inizia a inciderlo alle 2.40 del mattino nel salotto di casa sua e si capisce perché accende la televisione, ci sono lunghi momenti di silenzio, parla con il cane.
Il secondo lo incide a casa di alcuni suoi parenti registrando anche voci di coloro che ho scoperto essere i miei cugini da piccoli. Il terzo in un viaggio che fa da Perugia a Roma e da Roma a Foligno.
In questi nastri si parla della vita, della vita intesa anche come morte. Si parla degli anni ’80, c’è un sottofondo anche musicale di quegli anni. Sopra a questi sottofondi si incide la voce di Gianni che passa dal ricordo quotidiano della giornata vissuta, di Umbria Jazz, di quando è andato a trovare l’amico della madre, di chi ha incontrato, di cosa ha parlato. Sono episodi che poi si sviluppano e sfociano in considerazioni universali sull’essere umano e anche sull’essere immortale. Si passa dall’analisi di sé all’analizzare il mondo attraverso i propri occhi. Si citano libri, si parla della politica, della TV, di come cambia l’essere umano, dei personaggi che si creano sugli schermi televisivi nei quali ci si specchia ma non ci si riconosce e si prova il fallimento di non poter diventare mai come qualcuno di loro e quindi si fa la differenza tra sé e il personaggio. Si canta in questi nastri, si grida, si suona il clacson mentre si superano i Tir, si mangia la cioccolata.
In questi nastri c’è vita, la vita diretta del momento che accade lì e il bagaglio della vita di un essere umano.
Nello spettacolo si sviluppano tre piani di memoria: la memoria di Gianni, quella di Caroline e, sullo sfondo, quella degli anni ’80. Come hai lavorato su questo?
La memoria è restituita trascrivendo fedelmente tutto. Viene fuori un’epoca. È lo stesso Gianni che fa questo lavoro raccontando la società e scegliendo minuziosamente cosa raccontare facendo anche un’analisi critica di quello che vede e dei cambiamenti che stanno avvenendo.
Il nostro lavorare sulla memoria è stato il restituire, con la maggior autenticità possibile e con una trascrizione minuziosa, tutto quello che c’era nei nastri, dalle parole mozzate agli starnuti, dalla parolacce ai tentennamenti linguistici, dagli errori grammaticali alle musiche. Poi, c’è un livello più personale. Io filtro Gianni attraverso il mio corpo, dò voce alle sue parole. Anche qui c’è un atto estremo di rispetto verso quella memoria, senza mai cambiarne le sue inclinazioni, i suoi toni.
C’è una sorta di imitazione/filtro, c’è stato un grande lavoro di mimesis fisica di come io me lo ricordavo e per come la memoria me lo fa ricordare attraverso anche delle sensazioni. La memoria abbiamo cercato di riportarla il più fedelmente possibile, attraverso il suo pensiero, le sue parole, il suo stato d’animo rispetto al confronto con le cose. E poi c’è il livello più personale che si inserisce in tre momenti dello spettacolo dove racconto brevemente il fatto che l’ho conosciuto e che sto parlando di un mio parente. Non c’è giudizio ma il cercare di vivere ogni volta la sua storia e cercare di riportarla su palcoscenico nel modo più autentico possibile.
Nel tempo e con le repliche chi è diventato Gianni e cosa si deve aspettare il pubblico dal suo incontro?
Lo spettacolo col passare del tempo chiaramente si è sempre più rafforzato. In Gianni ho trovato anch’io sempre di più una forza mia. L’incontro con il pubblico è stato sempre molto generoso. Chi arriva ad ascoltare e a vedere “Gianni” deve semplicemente ascoltare. Noi cerchiamo di portarlo nel nostro mondo. Non c’è scenografia, c’è un rapporto diretto con lo spettatore. È fatto di niente, di piccole cose, di parole e corpo. Non c’è niente che può distrarre da lui. Chi viene ascolta una storia e spero, come già capitato, che ci si ritrovi un po’ sia per il linguaggio che per le tematiche perché anche se il disagio mentale da molti, per loro fortuna, non è conosciuto da vicino, il pensiero di Gianni è un pensiero lucido. A vote le persone stentano a credere che avesse una malattia. Certo ci trasmette la sua sofferenza ma c’è grande lucidità, era un uomo molto colto, una grande mente, c’è una maestria nel trasmettere il suo pensiero alimentandolo anche con pensieri di altri creando anche mondi meravigliosi ma immaginari che però non stonano. Sono quei personaggi immaginari che ognuno di noi ha, come chi parla di sé in terza persona. Gianni parlava di sé utilizzando un personaggio, Bomba Giò, che si fa strada nello spettacolo da un certo punto in poi. Un personaggio incredibile e inventato che lo rispecchia. Bomba Giò viveva nello spazio, aveva conosciuto mondi meravigliosi, aveva scoperto la verità, sapeva cosa c’era dietro la morte, aveva combattuto battaglie, aveva fatto parte dei più bei astri del cielo, conosceva l’immensità. Ad un certo punto, con grande naturalezza, Gianni dice: “è inutile che continuo, Bomba Giò sono io, Bomba Giò è un coglione!”
C’è un continuo creare e distruggere ma chi non lo fa? C’è un continuo provare discorsi da fare agli altri per la paura di affrontarli. Prova, ad esempio, i discorsi che farà allo psichiatra. Con Gianni scatta sempre, da parte del pubblico, grande solidarietà ed empatia.
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