Blog a cura di Raffaella Ilari con approfondimenti e interviste agli organizzatori, agli ospiti e al pubblico del 17° Festival di Resistenza
Le Sorelle Prosciutti, tra autobiografia, lavoro e modernità
Intervista a Massimo Donati, Compagnia Teatri Reagenti
Di Raffaella Ilari
Due giovani donne, le Sorelle Prosciutti, e una storia. Quella di una famiglia che per 50 anni ha fatto “i prosciutti più buoni del mondo”. Ma anche di un paese, Langhirano, nel territorio parmense, che in mezzo secolo si è ritrovato artigiano, industriale e poi interinale. Una storia di tre generazioni di prosciuttai, di un partigiano che crea il rinomato prosciuttificio Fassoni. Una storia di lavoro e delle sue trasformazioni, tra successi, fallimenti, cambiamenti. In scena Francesca Grisenti ed Eva Martucci, in un testo da loro scritto insieme a Massimo Donati, che firma anche la regia, con la supervisione di Francesco Niccolini.
Come nasce lo spettacolo?
Lo spettacolo nasce dalla storia familiare di Francesca Grisenti, la quale ha proposto a me e a Eva Martucci di scrivere lo spettacolo e di metterlo in scena. È stata quindi sua l’idea, sviluppata a livello drammaturgico nell’arco di tre anni. Non è facile raccontare una storia familiare che al suo interno vede lutti e vicende dolorose. Abbiamo lavorato attraverso interviste a testimoni, a operai che lavoravano nel prosciuttificio, a membri della famiglia, abbiamo rivisto materiali televisivi. Più tardi siamo riusciti ad arrivare al discorso drammaturgico vero e proprio con la residenza artistica ’Montagne racconta’ dove il testo è stato selezionato e poi seguito da Francesco Niccolini. Lì abbiamo iniziato a lavorare effettivamente alla drammaturgia, sfruttando la sintonia e la relazione che poteva esistere sul palco tra le due attrici.
Lo spettacolo, in questo conflitto tra vecchio e nuovo mondo, contiene una critica alla modernità?
Il nostro spettacolo non ha intenzione di compiere una critica alla modernità piuttosto di metterne in evidenza passaggi ed elementi critici in confronto con il passato. Una fotografia che è utile a prendere consapevolezza delle differenze tra il mondo che attraversiamo e quello che ormai non c’è più e che sta dietro le nostre spalle. Dal punto di vista del linguaggio utilizzato, siamo invece completamente dentro la modernità, anzi, elementi della modernità vengono enfatizzati da una mescolanza di linguaggi che abbiamo portato dentro una tessitura tipica del teatro di narrazione. Per esempio, il fatto che sia una narrazione a due voci femminili che si alternano con l’inserimento di elementi pop come i balletti anni ’80 e ’90, che riportano subito alla nostra memoria qualcosa che fa ormai parte del nostro patrimonio cultural-popolare.
C’è nostalgia nel pensare al vecchio mondo?
Lo spettacolo è attraversato da una certa malinconia che però ha una ragione molto chiara e precisa in quanto raccontiamo una storia finita, conclusa, che è la storia del prosciuttificio. E la relazione con il passato nasce da un punto di vista molto specifico, quello di una trentacinquenne, Francesca, e dal suo sguardo su una storia personale che si compone di un passato mitico che le è stato raccontato dai parenti e da un passato più recente vissuto da bambina quando abitava sopra al prosciuttificio e vedeva i camion portare all’estero la produzione considerata orgoglio nazionale. Tutto questo viene messo in relazione con un presente in continuo cambiamento, estremamente complesso e spesso difficile da interpretare.
E poi c’è Leonildo.
All’origine di questa storia c’è il partigiano Leonildo. È lui a fondare il prosciuttificio, prima artigianale, poi industriale. Il fatto che sia partigiano non è solo un elemento storiografico della vicenda familiare, ma è un elemento fondante perché il suo essere partigiano lo porta, nel suo fare, in un’etica del lavoro. In relazione con il presente il nostro sguardo è critico, è un presente complesso quello che descriviamo. Si può resistere al nuovo, a quello che non ci piace del nuovo? Si resiste con la convinzione che, nonostante tutto, nonostante la crisi economico-culturale che ha attraversato e attraversa il nostro paese nell’ultimo decennio, i valori di Leonildo, l’etica di quel mondo rimangono, e possono essere tramandati anche attraverso uno spettacolo teatrale.
La storia è al femminile: chi sono i due personaggi in scena?
Lo spettacolo nasce da una vicenda autobiografica. Per questo motivo, quando abbiamo affrontato la scrittura drammaturgica, ci siamo posti il problema del rischio della mitizzazione del passato e il pericolo della ‘retorica del tempo andato’ che volevamo evitare. Per questo abbiamo scelto di sdoppiare il punto di vista, ossia la voce narrante, in suo alter ego, incarnate dalle due attrici che a volte sono complici mentre a volte l’alter ego diventa dissacrante. In questo modo, rappresentiamo scenicamente, anche in modo divertente, una critica ad un punto di vista univoco traducendo contraddizioni, conflitti interiori con la libertà di poter dire quello che spesso per buona creanza il punto di vista principale non può raccontare. Durante l’evoluzione, anche temporale dello spettacolo, questi personaggi femminili dai caratteri apparentemente speculari evolvono e prendono corpo nel corso della narrazione.
Il tema del lavoro non è nuovo alla Compagnia: perché vi interessa trattarlo?
Finora con la compagnia Teatri Reagenti ci siamo mossi nell’ambito del teatro civile raccontando in modo critico prima la grande distribuzione in Label, questioni di etichetta e poi la cementificazione del territorio italiano in Cemento e l’eroica vendetta del letame. Visto che affrontiamo i problemi e temi della modernità abbiamo dovuto trattare quello del lavoro, di come è cambiato, di come la modernità ha trasformato anche il ruolo stesso del lavoratore nei diversi modi produttivi. È un tema a noi caro perché ineludibile nel tentativo di raccontare l’oggi.
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