Blog a cura di Raffaella Ilari con approfondimenti e interviste agli organizzatori, agli ospiti e al pubblico del 17° Festival di Resistenza
Vivere due vite per non viverne nemmeno una
Intervista a Raffaella Giancipoli, Kuziba Teatro
Di Raffaella Ilari
La Signora conta le malattie e io i suoi anni. Lei trattiene la mia giovinezza, io cullo la sua vecchiaia: sono parole di Tetyana Kochetygova, badante e poetessa, tratte dal libro Il Paese delle badanti di Francesco Vietti, una delle fonti di ispirazione di Raffaella Giancipoli per la messa in scena di L’estranea di casa di cui è autrice ed interprete. Uno spettacolo che parla di badanti, di donne che vivono due vite per non viverne alla fine nessuna, in una condizione di perenne sospensione.
Come nasce lo spettacolo?
Lo spettacolo è nato da esperienze vissute a una distanza di tempo molto breve. Alcuni anni fa è capitato tra le mie mani il saggio “Il Paese delle badanti” del sociologo pimontese Francesco Vietti, che mi ha colpita molto. Il saggio tratta, da un punto di vista sociologico, della vita di queste donne a Torino mettendo in rilievo la migrazione, che lui definisce transnazionale. Donne che vivono due vite senza viverle totalmente: quella che hanno lasciato nel loro paese d’origine, vissuta solo emozionalmente, e quella in Italia vissuta invece fisicamente ma non dal punto di vista interiore. Contemporaneamente, la ragazza con cui vivevo, stava attraversando con la sua famiglia, con la nonna, un momento di grande difficoltà tale da dover assumere una badante. Da lì è iniziato un lungo percorso nella vita delle badanti, che cambiavano spesso, che scomparivano o che diventavano invece parte integrante della famiglia. Queste due esperienze hanno acceso in me l’interesse per questo mondo da me distante perchè non vissuto in prima persona. Il secondo incontro è stato con un documentario di un regista rumeno, mandato in onda nel 2013 su Rai Tre, molto bello e molto vero, in cui si raccontava della grande tragedia degli orfani bianchi, i bambini lasciati a casa da soli o con i nonni, con gli zii o i padri spesso assenti, che arrivavano a compiere gesti estremi pur di riportare a casa la mamma. Quindi un lavoro che ha tre fonti: un saggio, un’esperienza diretta e un documentario.
Una storia che ha quattro diversi punti di vista: quello di Luminitja, la badante protagonista, quello di Chella, la signora anziana da accudire, quello di Alex, il marito rimasto in Romania e quello di Culin il figlio rimasto a casa. Come sono sviluppati nello spettacolo?
Quando lo spettacolo è nato ho cercato e letto tutto il possibile sul tema, ho intervistato badanti e anziani della mia zona di Bari e della provincia di Verona. Quello che è balzato subito ai miei occhi è stata la solitudine di queste donne popolata però da tantissime voci. La vita di queste persone è in realtà piena di altre vite. E da qui il desiderio di creare uno spettacolo nella forma del monologo in cui entrassero però le voci e i punti di vista dei coprotagonisti di Luminitja. La riflessione di Culin, il figlio rimasto a casa, è stata la chiave drammaturgica dello spettacolo. Il mio desiderio era di dare voce a questo bambino, agli orfani bianchi di cui poco si parla e che poco vengono ascoltati dalle famiglie stesse. Ed è per questo che ho deciso di affidare il suo punto di vista alla video-animazione presente non come elemento decorativo ma drammaturgico. Rappresenta la sua voce ma dà anche voce all’interiorità della badante. I punti di vista che emergono, tranne quello di Luminitja che racconta in prima persona, sono di Culin e Chella, l’anziana signora che lotta per non accettare la donna straniera in casa sua.
La vera protagonista di fatto è la dimensione dell’estraneità che dà poi anche il titolo allo spettacolo…Come viene affrontata?
L’essere stranieri, tema a me molto caro e che appartiene alla storia della mia famiglia di migranti, mi ha condotto al tema complesso dell’estraneità. L’estranea di casa si collega al tema della sospensione, di vivere due vite e nessuna delle due interamente. Luminitja è estranea a casa sua, in Romania, ma lo è anche qui in Italia, la sua è una condizione di marginalità, di sospensione totale. Una condizione che appartiene a tutti gli emigrati: non essere, non avere radici in un luogo, non avere più confidenza con il proprio posto di origine, essere estranei a tutto. E stranieri. Nello spettacolo questo tema viene affrontato attraverso il corpo di Luminitja che non sta bene da nessuna parte, come se camminasse sempre in punta di piedi. Estraneità anche nel linguaggio. Spesso Luminitja chiede “come si dice in italiano”, come se lo chiedesse al pubblico. C’è sempre questo io e questo voi. Sia in Italia, sia a casa sua. Se penso alla resistenza nella vita delle badanti penso che avvenga a più livelli: resistere alla nostalgia, al desiderio di tornare a casa, resistere al dolore della mancanza di non veder crescere i propri figli o invecchiare i propri genitori. Una fortissima resistenza che a che fare con il sacrificio. Ma anche resistenza al paese in cui vivono, in Italia, soprattutto in questo momento storico e politico che stiamo vivendo, sono straniere non particolarmente desiderate ma necessarie a noi e alla nostra economia. Altro livello è quello del resistere facendo un lavoro logorante, un lavoro in cui non viene chiesto solo di esserci fisicamente ma anche emotivamente, essere dentro la vita di un’altra persona. L’ultima resistenza è per me quella più forte: quella di chi rimane a casa, il resistere alla mancanza, all’assenza.
Interessante è la ricerca che come compagnia state portando avanti: il teatro che non c’è. In cosa consiste?
Siamo nati ufficialmente come compagnia grazie ad un Bando della Regione Puglia che puntava sui giovani creativi della Regione. Abbiamo iniziato con il progetto ‘Il teatro ti spiazza’ nato dal bisogno di raggiungere alcuni paesi della Murgia barese, zona nell’entroterra barese, molto isolata, dove non c’era produzione e circuitazione teatrale. Siamo partiti dal desiderio di portare il teatro dove non c’è, in piazza, tra la gente. Il primo progetto consisteva in una carovana teatrale che si spostava di paese in paese, facendo tutto all’esterno, dalle prove ai laboratori allo spettacolo. Per noi era l’idea di riportare al centro del teatro il rito e la condivisione con le persone. Le azioni teatrali partecipate hanno questi due elementi: arrivare in un luogo, interrogarlo, dialogare con le persone, mettere in connessione le diverse generazioni attorno ad un tema che emerge dal luogo stesso che andiamo ad abitare.