Blog a cura di Raffaella Ilari con approfondimenti e interviste agli organizzatori, agli ospiti e al pubblico del 17° Festival di Resistenza
Ai limiti della frontiera
Intervista ad Alice Conti, Compagnia Ortika-Gruppo Teatrale Nomade
Di Raffaella Ilari
È possibile comunicare al pubblico i risultati di una ricerca scientifica? È questa la sfida che si è data la compagnia Ortika-Gruppo Teatrale Nomade in Chi ama brucia. Discorsi ai limiti della frontiera, spettacolo in concorso al Festival di Resistenza, che affronta la questione dei campi di accoglienza per migranti stranieri, partendo proprio dallo sviluppo di interviste fatte a lavoratori ed ex reclusi di un C.I.E. (Centro di identificazione ed espulsione per stranieri) italiano. Ne parliamo con Alice Conti, interprete e regista.
Chi ama brucia: da dove nasce questo titolo?
È un titolo preso dalla realtà che ho trovato vergato sul muro che circonda il C.I.E. di Torino, mio campo di indagine, attorno al quale sono passata molte volte per osservare da fuori e che ho cercato di oltrepassare per portare il mio sguardo all’interno. Non potendolo fare direttamente, ho cercato di ricostruirlo attraverso le persone che all’epoca vi potevano stare, entrare e lavorare, nello specifico i reclusi e i lavoratori. È un discorso al limite della frontiera quello che si fa perché quel muro è una frontiera interna, tracciata in un quartiere popolare di una città, che segnala un’enclave in cui sono reclusi dei non residenti, degli stranieri, dei senza patria, dei senza documenti. Più in generale, chi brucia è anche chi brucia le frontiere, chi decide di attraversare una linea tracciata da uomini e di perseguire i propri desideri oltre quella frontiera.
Come avete costruito il testo?
La drammaturgia è curata insieme a Chiara Zingariello, l’autrice dei testi della nostra compagnia Ortika. Spesso lavoriamo alla riscrittura di testi preesistenti, in questo caso alle interviste da me realizzate per la mia ricerca di tesi in antropologia sul Centro di identificazione ed espulsione per stranieri di Torino. In particolare abbiamo utilizzato interviste che avevo realizzato con i lavoratori del centro che lavoravano nell’accoglienza, in particolare un volontario della Croce Rossa, un militare e una mediatrice culturale. Ci interessava questo punto di vista sulla questione migratoria perchè è un punto di vista un po’ insolito. Nella maggior parte dei casi lo sguardo è rivolto al corpo straniero che arriva o che è già presente sul territorio e molto raramente si guarda invece ai meccanismi legislativi, burocratici, amministrativi che creano la clandestinità e implementano la frontiera. Ci interessava guardare a quel tipo di meccanismo di cui questi lavoratori italiani erano l’incarnazione e tramite reale per farci comprendere il Campo, la sua architettura, le sue regole, il tipo di vita che si conduce quotidianamente per ricostruire il tipo di accoglienza che facciamo realmente. Ci interessava nel caso specifico del C.I.E., che continua ad essere annoverato tra i centri di accoglienza, a mettere in evidenza come la retorica utilizzata per descrivere questi luoghi sia molto distante e contraddittoria dalla realtà quotidiana dei luoghi stessi. In scena abbiamo un solo personaggio che è quello della Crocerossina che racconta il Campo dal suo punto di vista.
Il testo dal 2013 a oggi si è aggiornato?
Il racconto è andato aggiornandosi negli anni, abbiamo inserito delle parti nuove, così come negli anni i centri hanno cambiato molte volte nome, prima erano centri di permanenza temporanea, poi di identificazione ora centri chiusi, centri di detenzione. Il nostro racconto è finito per essere un racconto che, attraverso la narrazione di questo luogo, finisce a parlare di noi, di come una persona normale in un meccanismo alienante finisce per soccombere e abituarsi alla saturazione della violenza. Dalle testimonianze molti mi dicevano di essere inizialmente spaventati poi piano piano tutto si normalizzava diventando essi stessi dei perpetuatori dei meccanismi che accadevano all’interno. Ci interessava indagare il come ci si abitua alle cose anche a quelle più tremende.
Nelle note di regia si legge della necessità del teatro di comunicare ad un vero pubblico i risultati di una ricerca scientifica. Cosa intendi per vero pubblico?
È una necessità che sento molto forte e urgente di aprire gli esiti di una ricerca scientifica ad un pubblico più ampio e anche più impreparato a ricevere. Il teatro è un mezzo popolare di comunicazione, di fruizione immediato, può essere quindi un media incredibile per la comunicazione e la diffusione dei saperi. Lo spettacolo gira da sei anni nei contesti più diversi, incontrando i pubblici più disparati ed impreparati a ricevere questo tipo di narrazione. Ci si riprende il ruolo del teatro che è quello di creare comunità, guardandosi in faccia, non insultandosi dietro le tastiere dei computer o trincerandosi dietro posizioni ideologiche o di aggressività verbale proprie di questi giorni. A partire da una serie di dati in modo serio ma non necessariamente serioso o complesso, si vuole aprire a possibilità di dialogo e di connessione vitali nella nostra società.
Si può parlare di spettacolo-inchiesta?
In realtà è un tentativo più complesso e stratificato. Di questa definizione accogliamo il tentativo di portare alla comunità una serie di dati reali che aprono una problematica e una discussione. Ma dal punto di vista della messa in scena lavoriamo anche con la visione, con la poesia, con la luce, con altri elementi non propri dello spettacolo di denuncia, per aprire una riflessione emozionale.
Perché la scelta di presentare il vostro lavoro al Festival di Resistenza?
Quale contesto migliore per presentare il nostro lavoro per noi teatranti che cerchiamo di scrivere della nostra contemporaneità, che ci sentiamo anima viva con gli stessi ideali di Resistenza, di antifascismo, di antirazzismo, di antisessismo? Noi che con il nostro lavoro cerchiamo di renderlo reale e attuale ogni giorno. Fare teatro è un atto di resistenza. Per questo siamo felici di essere al festival con il nostro spettacolo.
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