GIORGIO VECCHIO: 25 APRILE – RESISTENZA ED EUROPA UNITA

Introduzione

Il tema della nostra celebrazione odierna è dettato dalle circostanze. Oggi festeggiamo la Liberazione dell’Italia dall’occupazione tedesca e dal regime fascista, dopo che nel 1946 il governo De Gasperi – vigente ancora la monarchia – individuò il 25 aprile, giorno dell’insurrezione generale proclamata dal CLNAI, come la data migliore per festeggiare la vittoria degli ideali democratici e per commemorare i caduti. Ma tra un mese, dal 23 al 26 maggio, si terranno le elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo. Sarà l’ottava volta, dopo le prime storiche elezioni dirette del 1979.

La domanda che ci poniamo è dunque scontata: esiste un legame tra le vicende resistenziali e lo sviluppo degli ideali europeistici? O ancora: ha senso parlare di Europa unita proprio oggi, 25 aprile? O si tratta solo di una forzatura estemporanea?

La risposta è che il legame tra il sogno dell’unità europea e la Resistenza è davvero strettissimo e non solo nel nostro Paese. Del resto tutti sanno che esiste una connessione profonda tra l’europeismo e la II guerra mondiale. Anzi, dovremmo dire, tra l’europeismo e le due guerre mondiali che hanno inciso il Novecento.

Fu infatti nel corso degli anni Venti, a ridosso del bagno di sangue della Grande Guerra, che sorsero i primi ideali europeistici, ancora piuttosto esili e astratti, ma già capaci di cogliere l’essenzialità dei problemi. Uno dei principali ispiratori fu il conte Richard Coudenhove Kalergi (1894-1972), figlio di un diplomatico austro-ungarico e di una giapponese, divenuto poi cittadino della Cecoslovacchia e in seguito della Francia. Nel 1923 quest’uomo cosmopolita e plurilingue scrisse il libro Pan-Europa e lanciò l’idea di un’unione dalla Polonia al Portogallo, con lo scopo di impedire nuove guerre continentali e di collocarsi in un nuovo sistema di potenze mondiali, accanto alla Russia, all’impero britannico, agli Stati Uniti d’America e alle potenze dell’Estremo Oriente. Vi era, insomma, l’intuizione che i singoli Stati europei dovessero federarsi per poter competere nel mercato globale.

Le idee di Coudenhove, così come quelle del ministro degli Esteri francese Aristide Briand e dello stesso statista britannico Winston Churchill non ebbero seguito. Da notare che, nel 1930, quest’ultimo propose in un suo articolo (The United States of Europe) l’opportunità di realizzare una federazione europea, dalla quale però la Gran Bretagna avrebbe dovuto rimanere fuori: gli Stati Uniti d’Europa avrebbero così dovuto avere un carattere esclusivamente continentale.

La crisi economica scoppiata nel 1929 spinse invece il mondo verso altre direzioni, ovvero quelle del nazionalismo, del protezionismo e dell’imperialismo. Non era più tempo di democrazia e di collaborazione, bensì di dittatura e di guerra.

Il conflitto scoppiato nel 1939 – a ben vedere – si giocò anche attorno a un’idea di unificazione europea. Ciò era di fatto presente nel progetto espansivo della Germania di Hitler. Dall’Atlantico agli Urali, l’Europa avrebbe dovuto essere unita: ovviamente, non nel segno della federazione liberamente condivisa, bensì sotto quello della dominazione tedesca e nazista. I vecchi Stati nazionali venivano spazzati via e sostituiti da un brutale controllo militare diretto o da vergognosi regimi-fantoccio. L’Europa della svastica era basata sulla fratellanza d’armi delle SS di ogni nazionalità, sulle Brigate Nere italiane, sulle Croci frecciate ungheresi, sui combattenti rexisti belgi, sulla Divisione Blu spagnola e così via.

Proprio le modalità dell’espansione teutonica finirono per costruire un’altra modalità di unità europea: da questa parte si affratellavano i macilenti deportati di Mauthausen e di Buchenwald, di Dachau e di Flossenbürg… per non parlare dei morituri ebrei e rom nei campi di sterminio. All’Europa delle baionette e delle divise militari si contrapponeva l’Europa delle tute a strisce, del filo spinato e delle camere a gas. Ma anche un’altra Europa prendeva forma, quella di chi proclamava i principi universali della dignità umana, della giustizia e della libertà, incarnando spesso, anche materialmente, un’altra e contrapposta fratellanza d’armi: quella dei militari italiani rimasti a combattere nei Balcani, dei sovietici e degli jugoslavi partigiani in Italia, perfino dei tedeschi avversi al loro regime, come il futuro cancelliere Willy Brandt, membro della Resistenza norvegese.

Del resto, il futuro rettore della Cattolica Ezio Franceschini, partecipe della Resistenza insieme al comunista Concetto Marchesi, rievocando i motivi della sua partecipazione alla Resistenza, scrisse:

«Il futuro destino dell’Europa e dell’Italia secondo Hitler. Nei suoi discorsi egli diceva che, dopo la vittoria, per mille anni l’Europa sarebbe stata dominata dai tedeschi, razza superiore, destinata al potere. Tutti gli altri popoli, servi. L’Italia alleata, avrebbe potuto occuparsi del settore tessile, in cui sarebbe stata padrona, e di quello agricolo-turistico… Questa superbia razzista, questa teoria del popolo guida, questa delega ai tedeschi della difesa dell’Europa, mi facevano orrore e rabbia. Per il pochissimo che dipendeva da me, dovevo oppormi».

Proprio da questa constatazione, di collaborazioni europee opposte tra loro, possiamo dunque prendere le mosse per riflettere più a fondo sul rapporto tra la Resistenza e l’Europa unita. Lo faremo anzitutto trasferendoci idealmente in due luoghi simbolo della repressione nazista e della sofferenza di migliaia e migliaia di esseri umani.

1. I monumenti di Mauthausen

Mauthausen, con i suoi vari sottocampi, tra cui quello di Gusen, è un luogo famigerato e spesso visitato dai pellegrini della memoria. Naturalmente il maggior coinvolgimento emotivo si verifica quando si entra nel Lager passando attraverso il massiccio portone o quando si visitano le baracche o quando ci si trova davanti ai forni crematori. Straordinario è però il percorso che si compie per arrivare all’ingresso: esso è costellato dai monumenti celebrativi posti da tutte le varie nazioni i cui cittadini sono stati rinchiusi e uccisi a Mauthausen.

L’Unione Europea odierna ha un motto: «Unità nella diversità». Come non applicarlo a quella lunga serie di monumenti, ciascuno con una sua forma artistica e anche con una sua retorica, ma al tempo stesso tutti finalizzati a fare memoria dell’indicibile?

Qui è l’Europa, anche se si tratta di un’Europa un po’ particolare, che nella pietra testimonia la propria storia politica e culturale.

Qui troviamo, infatti, i monumenti alle vittime dell’Unione Sovietica, della Repubblica Democratica Tedesca, della Jugoslavia, della Cecoslovacchia, ovvero di paesi ormai scomparsi dalla carta geografica. Troviamo pure i monumenti dei nuovi Stati sorti dopo il 1989, come l’Ucraina.

Qui possiamo cogliere l’evoluzione della memoria, dapprima rivolta soltanto alle vittime di sesso maschile, deportate per reati politici; poi anche alle vittime di sesso femminile e a tutti coloro che furono sacrificati in nome dell’inaccettabile lotta contro gli ebrei, i rom e i sinti, gli omosessuali, i Testimoni di Geova… Le date della costruzione dei monumenti o della posa delle lapidi parlano ai visitatori più attenti di oggi.

Qui sono le radici più genuine dell’Europa unita: uomini e donne che in larga parte furono qui portati a causa del loro impegno per la libertà, costrette ora a riconoscersi fratelli e sorelle, pur parlando lingue diverse e incomprensibili, pur professando idee politiche contrapposte, pur credendo o non credendo in Dio. Uomini e donne uniti dalla comune sofferenza, che tuttavia cominciarono a conoscersi, a dibattere, a pensare non solo alla sopravvivenza ma anche alla progettazione di un futuro diverso.

Naturalmente non è possibile dimenticare la terribile concretezza della realtà: a Mauthausen, come a Buchenwald, a Dachau, a Flossenbürg, a Dora-Mittelbau… l’urgenza della sopravvivenza  quotidiana passava sopra ogni altra considerazione. Inoltre, più che di solidarietà tra i prigionieri, si dovrebbe parlare spesso della lotta di tutti contro tutti, oltre che del generale disprezzo riversato sugli italiani, indistintamente e paradossalmente classificati come “maccaroni di Mussolini” o come “porci badogliani”. Ma ciò non toglie che nelle testimonianze dei superstiti troviamo ugualmente tracce di un diverso rapporto tra gli esseri umani. O, come ragionava don Roberto Angeli:

«Erano dunque l’inferno quei campi di Mauthausen? Ricordo che noi preti discutemmo seriamente l’argomento e giungemmo… ad una risposta negativa. L’inferno è senza speranza, mentre noi avevamo la certezza di uscire di lì, vivi o morti».

L’Europa unita è dunque nata dalla comune sofferenza.

2. Le baracche e i preti di Dachau

Ne abbiamo la conferma se ci spostiamo in un altro luogo tristemente noto: Dachau. Qui, nel 1941, Himmler aveva fatto condurre i preti e i cosiddetti Prominenten, con il duplice scopo di tacitare le continue proteste del Vaticano e di meglio controllare persone considerate pericolose a causa della loro levatura intellettuale e del possibile ascendente. Un’ordinanza del 28 ottobre 1944 completò queste disposizioni, rendendole ancora più estese. Proprio in alcune specifiche baracche di Dachau, dunque, finirono per ritrovarsi anche 28 preti italiani, tra cui il legnanese don Mauro Bonzi. Complessivamente furono circa tremila i religiosi di ogni parte d’Europa che dovettero convivere in quelle baracche, beninteso tenuti rigidamente al largo da tutti gli altri prigionieri. Rappresentavano una dozzina di nazionalità diverse, vi erano per lo più cattolici, ma anche protestanti, ortodossi e di altre confessioni cristiane. Vi erano vescovi e abati, mentre alcuni, vescovi, lo sarebbero diventati, come Josef Beran, poi arcivescovo di Praga e cardinale. Nell’inferno del Lager si celebrava di nascosto la Messa, si distribuivano frammenti di pane consacrato, e il vescovo francese di Clermont-Ferrand ordinò prete un seminarista tedesco morente, Karl Leisner…

Anche in questo caso la vita comune fu difficoltosa, ma proprio la particolarità delle circostanze consentì ai preti deportati di conoscere differenti realtà di Chiesa, utilizzando il latino come lingua universale di comunicazione. Le memorie di don Roberto Angeli, già reduce di Mauthausen e di Gusen, e ispiratore della Resistenza in Toscana; quelle di padre Giannantonio Agosti, cappuccino confessore nel duomo di Milano; e ancora quelle di p. Carlo Manziana, bresciano amico di Paolo VI e futuro vescovo di Crema, descrivono e commentano con lucidità la vita dei preti a Dachau. Proprio secondo padre Agosti, «forse non mai come a Dachau compresi il sublime significato delle parole del Credo: Unam, Sanctam, Catholicam et Apostolicam Ecclesiam». E questo proprio a causa della presenza di persone provenienti dai più disparati paesi europei. Scriverà ancora questo cappuccino:

«A Dachau si ebbe, assai prima del Concilio ecumenico, una vera adunanza ecumenica. Né mai tanti sacerdoti cattolici si erano trovati a contatto, per mesi ed anni, con tanti ministri del culto di altre confessioni cristiane e non cristiane. Oltre che ecumenico, quello fu anche – indubbiamente il primo nella storia – il tempo del dialogo religioso cattolico aperto ufficialmente dal Concilio con tutte le confessioni e con tutti i popoli del mondo».

Si può perciò dire che la persecuzione nazista da un lato contribuì a far prendere coscienza della necessità di costruire l’unità dei cristiani e dall’altro sollecitò una maturazione degli ideali di libertà e democrazia anche dentro le istituzioni religiose. Da Dachau uscirono preti che avrebbero lottato per questi ideali: per esempio il greco ortodosso Damaskinos Hadjopulos che, divenuto vescovo, fu poi deposto dal regime dei colonnelli. Dal canto suo, dopo la liberazione, padre Manziana non dimenticò: mantenne legami profondi con gli altri superstiti tedeschi, polacchi, cecoslovacchi e godette del privilegio di potersi recare più volte nell’Europa comunista per incontrarli. Anche come vescovo di Crema non mancò di fare memoria dell’esperienza del Lager e di richiamare alla coerenza i superstiti:

«La celebrazione del trentennio della Liberazione deve essere motivo di esame di coscienza per ciascuno, per me, primo di tutti nella mia condizione di superstite dell’immane naufragio e nella mia responsabilità di vescovo. Ci chiediamo: quegli ideali di li­bertà democratica, di giustizia sociale e di costruttiva concor­dia, hanno avuto la loro piena attuazione o hanno trovato una remora nella indolenza, nella incompetenza e nella divisione?».

L’Europa unita è dunque nata dal dialogo religioso.

3. Combattenti internazionali

La ricorrenza che celebriamo oggi, però, è indissolubilmente legata alla durissima lotta condotta sul territorio italiano, attraverso due inverni e due primavere. Una lotta che fu sostenuta da partigiani di ogni idea politica, ma anche di ogni nazionalità. La nostra guerra di liberazione è stata combattuta da uomini che parlavano le più diverse lingue, e non mi riferisco qui soltanto alla plurietnica composizione delle truppe alleate.

Se rileggiamo le storie locali troviamo che sugli Appennini e sulle Alpi si trovavano anche francesi, inglesi, australiani, jugoslavi, sovietici, cecoslovacchi, greci, albanesi… fuggiti dai campi di prigionia dopo l’8 settembre e impossibilitati a raggiungere i loro compagni al di là della linea del fronte; si trovavano russi, caucasici, asiatici arruolati a forza nella Wehrmacht e poi divenuti disertori e partigiani; c’erano anche tedeschi e austriaci stanchi di combattere per una causa disumana. Si tratta di tante storie, spesso rimaste sconosciute per decenni, che coinvolsero tuttavia migliaia e migliaia di uomini, in tutte le regioni italiane.

Oggi noi dobbiamo ricordare il nostro debito anche verso di loro: per esempio, verso i quattro sovietici insigniti dalla nostra Repubblica della medaglia d’oro al valor militare: Danijl Varfolomeievic Avdeev, Pore Musolishvili (che morì gridando «Viva la Russia, viva l’ Italia libera!»), Nicolaj Bujanov e Fëdor Poletaev (il «Gigante Fiodor»). Ma anche verso Eugenio Stipcević (“Genio”) e Daniel Fauquier, jugoslavo il primo e francese il secondo, comandanti della brigata internazionale ISLAFRAN (Italiani Slavi Francesi), attiva nelle Langhe. Siamo grati a Paolo il Danese, ovvero Arndt Paul Lauritzen, prete cattolico, comandante della brigata III Julia, la prima a entrare a Parma il 26 aprile 1945. E vogliamo bene alla scozzese Mary Rose Evelyn Cox, seviziata e uccisa dai fascisti della banda Carità nella Firenze del 1944…

D’altra parte, come non ricordare anche i tanti militari italiani che dopo l’8 settembre, piuttosto che cedere ai tedeschi e trovandosi tanto lontano da casa, sono passati armi e bagagli a combattere fianco a fianco dei partigiani greci, albanesi, jugoslavi nei disastrati Balcani? Non ci fu solo l’eroismo della divisione Acqui a Cefalonia o quello degli ammiragli Campioni e Mascherpa a Rodi o dei comandanti della divisione Bergamo che difesero invano Spalato insieme ai partigiani titini. Si trattò di intere unità del Regio Esercito o di singoli uomini, che fecero una scelta di campo che risultò tutt’altro che priva di sofferenze, di maltrattamenti, di caduti (diecimila, almeno). Così in Montenegro nacque nel dicembre 1943 la divisione italiana partigiana Garibaldi, che combatté fino al rientro in Italia nel 1945, colma di onorificenze al valore. Meno organica fu la partecipazione dei nostri militari alla Resistenza albanese e a quella greca, per ragioni dipendenti anche dal complicato contesto locale.

Forse il ricordo più commovente di questa fraternità creatasi sui più diversi terreni tra persone di lingua diversa può essere trovato nel soccorso offerto dai pastori abruzzesi ai prigionieri alleati evasi dopo l’8 settembre dal campo di Sulmona. La settantaduen­ne Anita Santamarroni prima di essere fucilata dai tedeschi precisa: «Non li ho aiutati perché erano inglesi, ma perché sono una cristiana e anche loro sono cristiani». Ugualmente chiaro il messaggio del pastore quarantasettenne Michele Del Greco, destinato alla fucilazione, che prima di morire spiegò al suo parroco: «Muoio per aver messo in pratica quello che mi è stato insegnato in chiesa quando ero bam­bino: dar da mangiare agli affamati».

In qualche modo possiamo dunque dire che quello che è avvenuto nel corso della Resistenza europea conferma quello che, per l’Italia, si è spesso ripetuto e cioè che la Resistenza è stato un secondo Risorgimento. Come non ricordare allora i tanti patrioti che da ogni dove accorrevano – nell’Europa della Restaurazione – a combattere per la libertà della Grecia, della Polonia, dell’Ungheria e della nostra penisola italiana? Da George Byron a Santorre di Santarosa, da Stefano Türr a Francesco Nullo, sono tanti i nomi che, un tempo, si ricordavano anche nelle nostre scuole.

L’Europa unita è dunque nata dalla comune Resistenza armata e dalla Resistenza disarmata.

4. Resistenza ed europeismo in Italia

Ma questi resistenti, nelle varie circostanze in cui si trovavano, possedevano idee sul futuro dell’Europa? O tutto si riduceva a nobili, ma vaghi, sentimenti di solidarietà e – neppure sempre – di amicizia?

Il problema vero era che la Resistenza europea si muoveva su tanti binari paralleli, senza una qualsiasi forma di coordinamento e che di conseguenza l’internazionalismo partigiano non era in grado di superare la generica solidarietà per costruire un progetto comune per il futuro. Pesavano tanto anche le differenze nazionali e quelle politiche, condizionate dalla nette distinzioni tra comunisti, socialisti, liberal-democratici, laici, cattolici e così via.

Eppure, nobili e fruttuosi tentativi non mancarono.

È molto noto il fatto che proprio in Italia – e ancora prima che iniziasse una vera e propria Resistenza armata – germinò un seme importantissimo dell’Europa unita.

Fu nell’area del liberal-socialismo e dell’azionismo che prese corpo l’ipotesi di una federazione europea, sulla strada indicata dal suo ispiratore Carlo Rosselli (ucciso nel 1937 insieme al fratello Nello da sicari fascisti). Già nel 1935 Rosselli aveva infatti invitato a puntare su un’assemblea costituente per redigere una costituzione europea, segnalando altresì che l’europeismo doveva diventare patrimonio delle masse popolari e non soltanto di alcune élites.

Lungo questa strada si posero Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, mentre si trovavano al confino, loro imposto dal regime fascista, sull’isola tirrenica di Ventotene. Il loro documento Per un’Europa libera e unita, datato agosto 1941 e comunemente chiamato Manifesto di Ventotene, è oggi considerato una tappa miliare del processo di unificazione del vecchio continente. Ma a quelle pagine diede poi un apporto fondamentale un giovane resistente socialista, Eugenio Colorni, tra l’altro cugino di Enzo ed Emilio Sereni. Quel Colorni che fu ucciso pochi giorni prima della Liberazione di Roma. Fu infatti lui, proprio nel 1944, a sistemare il testo in tre capitoli: 1) La crisi della civiltà moderna; 2) Compiti del dopoguerra. L’unità europea; 3) Compiti del dopoguerra. La riforma della società e, soprattutto, fu lui a provvedere alla diffusione clandestina del Manifesto.

Concentrati sulla necessità di spazzare via il militarismo nazista, Spinelli e Rossi pensavano al definitivo superamento degli Stati nazionali, in vista della realizzazione di un obiettivo ambizioso:

«Costituire un largo stato federale, il quale disponga di una forza armata europea al posto degli eserciti nazionali, spazzi decisamente le autarchie economiche, spina dorsale dei regimi totalitari, abbia gli organi e i mezzi sufficienti per fare eseguire nei singoli stati federali le sue deliberazioni, dirette a mantener un ordine comune, pur lasciando agli stati stessi l’autonomia che consenta una plastica articolazione e lo sviluppo della vita politica secondo le peculiari caratteristiche dei vari popoli».

L’Europa da loro immaginata avrebbe dovuto porre la giustizia sociale come proprio pilastro:

«Le forze economiche non debbono dominare gli uomini, ma – come avviene per forze naturali – essere da loro sottomesse, guidate, controllate nel modo più razionale, affinché le grandi masse non ne siano vittime».

Le idealità europeiste e federaliste furono largamente diffuse nei partiti italiani che andavano organizzandosi nella lotta clandestina.

Spazio fu loro dato dai socialisti – allora riuniti nel PSIUP -, i quali coltivavano il sogno di costruire uno Stato europeo capace di fare sintesi tra il socialismo sovietico e la democrazia occidentale. Nella Dichiarazione politica programmatica del 26 agosto 1943 essi scrissero di voler avviare «l’Europa verso una libera federazione di Stati». Articoli europeistici apparvero nell’edizione clandestina dell’«Avanti!», mentre – oltre a Colorni – anche Ignazio Silone diede il suo contributo di riflessione.

Certo, per i socialisti e ancor più per i comunisti, il problema fondamentale era costituito dalla loro visione internazionalista di stampo marxista-leninista e nel solido legame con l’Unione Sovietica di Stalin. È ben noto che il PCI mantenne a lungo un atteggiamento ostile verso la costruzione dell’Europa unita, individuando nelle prime comunità – la CECA, la CED, la CEE – soltanto uno strumento congeniale agli interessi del capitalismo occidentale anticomunista. Tuttavia, nella fase della Resistenza, il partito non sbatté la porta. Per esempio, nella Lettera aperta ai partiti del CLNAI, inviata nel novembre 1944, i comunisti fecero qualche vaga apertura, parlando di puntare a «una collaborazione ed a legami politici, economici e culturali sempre più stretti con tutte le democrazie europee, per il consolidamento della pace e per la solidarietà nell’opera di ricostruzione del Continente».

Quanto alla Democrazia Cristiana, i suoi primi documenti, redatti con il contributo di De Gasperi, accennavano genericamente a una “Comunità Europea”, oppure a una «zona di pacifica solidarietà» nella vecchia Europa. Ma, pronunciamenti ufficiali a parte, chiara e forte era la consapevolezza che l’unificazione europea fosse una strada obbligata da percorrere, per evitare che i vecchi Stati del continente fossero schiacciati da superpotenze mondiali. Nel dicembre 1944 la Democrazia Cristiana veneta diffuse un anonimo opuscolo programmatico intitolato La politica del buonsenso, il cui autore era in realtà il futuro ministro Luigi Gui. Vi si potevano leggere ragionamenti come questo:

«Oggi la situazione è divenuta insostenibile, poiché i grandi Stati che circondano l’Europa minacciano di sommergerla. Già gli Stati Uniti insidiano le colonie inglesi e francesi, e già soprattutto la Russia slava e mongolica avanza verso occidente minacciando di schiacciare le libere e fiorenti nazioni europee. Ogni giorno ce ne porta una nuova conferma. Che cosa fare? Continueremo a beccarci tra di noi come i capponi di Renzo finché non finiremo nella grande pentola russa o americana? Sarebbe veramente cretino. Attenderemo supinamente di essere ingoiati dall’orso russo o dal polipo americano? Oltre che cretino sarebbe anche vile. Che fare dunque? Non resta che difenderci e in un modo soprattutto: unendoci. È venuto il tempo di creare una Confederazione d’Europa, Inghilterra compresa.

È una soluzione nobile ed intelligente, degna di popoli civili. […] La cosa incontrerà indubbiamente molte resistenze e soprattutto l’Inghilterra sarà perplessa a causa degli Stati della sua Confederazione: ma la coscienza dei popoli europei deve convincersi che non esiste altra strada da scegliere e deve imporre di seguirla. […] Creare dunque la confederazione d’Europa e poi costituire un’organizzazione internazionale, una più perfetta società delle Nazioni, per collaborare e dirigere le questioni con i grandi stati extra europei. Questa è la via del buon senso, dell’interesse e dell’onore».

5. Resistenza ed europeismo fuori d’Italia

L’altro grande paese in cui iniziarono a fiorire ideali europeisti fu la Germania. Sì, proprio quella Germania che si era affidata al nazismo e che era divenuta la più grande nemica della civiltà e della libertà. Lo sappiamo bene, in quel paese non esisteva (e non poteva esistere) una Resistenza armata, ma ciò non toglie che qua e là nobilissime figure di resistenti – molte di più di quanto comunemente si pensi – si andavano levando contro l’orrore della dittatura nazista. Uomini e donne pronti a pagare con la vita il proprio coraggio. Del resto, i primi “ospiti” di Dachau, fin dal 1933, erano stati proprio cittadini tedeschi.

Come non ricordare allora, in questo nostro 25 aprile, l’eroismo dei ragazzi della Rosa Bianca, con il loro grido «Es lebe die Freiheit», «Viva la libertà», gridato da Hans Scholl al momento di essere ghigliottinato insieme alla sorella Sophie il 22 febbraio 1943, primi di una serie di giustiziati, di un gruppo nel quale si trovavano cattolici, protestanti, ortodossi, comunisti? Ebbene, nel loro quinto volantino questi ragazzi avevano scritto: «Solo un sano ordinamento federalista può oggi riempire di nuova vita l’Europa indebolita […] Libertà di parola, libertà di fede, difesa dei singoli cittadini dall’arbitrio dei criminali stati fondati sulla violenza: queste sono le basi della nuova Europa!».

La nostra riconoscenza deve però andare anche al Kreisauer Kreis (ovvero il Circolo di Kreisau, dal nome del paese Kreisau in Bassa Slesia, dove i suoi aderenti si incontravano nella residenza del conte Helmuth von Moltke). Il gruppo, volto inizialmente alla ricerca e alla formazione, costruì rapporti con altri gruppi resistenziali e con i vertici militari, fino a essere coinvolto nel fallito attentato a Hitler del luglio 1944, in seguito al quale molti dei suoi membri furono arrestati e giustiziati. Nell’agosto 1943 il circolo aveva preparato un documento dal titolo Grundsätzen für die Neuordnung (Princìpi per il nuovo ordine), che prevedeva la ricostruzione in Germania di uno Stato di diritto federale, inserito in un’Europa federale, della quale avrebbe dovuto far parte anche la Russia. Proprio von Moltke aveva già individuato nei valori universali della religione e nel federalismo la via per ricomporre l’unità dell’Europa, per metter fine agli orrori ricorrenti delle guerre fratricide. Moltke venne giustiziato, così come l’ex borgomastro di Lipsia Carl Friedrich Goerdeler, anche lui coinvolto nei complotti contro il Führer e anche lui aperto all’ideale europeistico e federalistico per il dopoguerra.

Proprio alla fine della guerra, da uno dei più tristi lager nazisti uscì un Manifesto dei socialisti democratici dell’ex campo di concentramento di Buchenwald, nel quale si sosteneva che il fine supremo era quello di arrivare a «un legame degli Stati europei, che garantisca, mediante una comunità europea, ordine e benessere al nostro continente».

Se dalla Germania ci trasferiamo sull’altro fronte della guerra, nella Francia occupata e resistente, troviamo altri germi dell’unità europea, con la presenza di vari gruppi antinazisti capaci di maturare idee nuove per l’Europa del futuro. Così a Lione, dove nel 1942 Henry Frenay sulle pagine del giornale «Combat» notava che la Resistenza doveva combattere per gli «Stati Uniti d’Europa», tappa verso gli Stati Uniti del mondo. Nella regione di Tolosa, nello stesso 1942, il gruppo «Libérer et fédérer» affermava che «il governo rivoluzionario dovrà preparare, in collaborazione con i governi degli altri paesi liberati dal fascismo e dal nazismo, le basi di una federazione europea fondata sulla libertà, la pace e la prosperità». E, ancora in quell’anno, il vecchio socialista Léon Blum concludeva di scrivere un saggio, diffuso clandestinamente, intitolato A l’échelle humaine (Su scala umana), per impegnare i socialisti francesi verso l’ideale del federalismo europeo.

C’è una nota importante, da aggiungere. Il giornale di Tolosa, «Libérer et fédérer», era diretto da un professore italiano, un antifascista esule oltralpe: Silvio Trentin, il padre del futuro segretario generale della CGIL, Bruno. Silvio, lo ricordiamo, rientrò in Italia nel 1943, si aggregò alla Resistenza, fu arrestato dalla polizia fascista, fu scarcerato e morì per problemi di cuore nel marzo 1944.

Il suo pensiero rimane tra i più profondi nell’Italia politica del Novecento. In quegli scritti del 1942, egli intendeva valorizzare «le interconnessioni tra rivoluzione antifascista, unione europea, nuovi ordinamenti autonomistici e garanzia della pace». In un suo scritto del 1930, Trentin aveva proposto una riflessione che ci torna utile, anche nell’Europa del 2019:

«Per arrivare all’unione, l’Europa deve in primo luogo ‘unificarsi’. Essa non può unificarsi che con il trionfo, in tutti e in ciascuno degli Stati che concorrono al mantenimento della sua vita, della causa che è sempre stata la sua, la causa della persona umana, della dignità eminente della persona umana, la causa dello spirito, la causa della libertà. Ora proprio questa causa il fascismo ignora e contraddice in ogni occasione e con ogni mezzo, di fronte all’Europa. Ecco perché esso è l’anti-Europa».

Una tappa importante di questa maturazione europeistica fu raggiunta nella Svizzera neutrale, a Ginevra il 20 maggio 1944 nella casa di Willem Visser ’t Hooft, olandese, resistente antinazista e pioniere dell’ecumenismo (era allora segretario generale del Consiglio ecumenico mondiale delle Chiese). Qui si incontrarono rappresentanti delle varie nazioni, per firmare una Dichiarazione federalista dei resistenti europei, nella quale si sosteneva la necessità di dar vita a una Federazione europea sia per garantire la pace nel vecchio continente, sia per rendere possibile la riammissione dei tedeschi nella comunità internazionale, sia ancora per consolidare le istituzioni democratiche all’interno dei singoli Stati. Tra i firmatari di quell’importante documento troviamo protagonisti che abbiamo già incontrato: Altiero Spinelli, Léon Blum, Henry Frenay.

Leggiamo in quel testo:

«L’Unione federale dovrà possedere essenzialmente:

1) Un governo responsabile non verso i governi dei diversi Stati membri ma verso i loro popoli dai quali dovrà essere eletto e sui quali dovrà poter esercitare una giurisdizione diretta nei limiti delle sua attribuzioni.

2) Una forza armata posta agli ordini di questo governo che escluda ogni altro esercito nazionale.

3) Un Tribunale Supremo che giudicherà tutte le questioni relative all’interpretazione della costituzione federale e risolverà gli eventuali conflitti fra gli Stati membri o fra gli Stati e la Federazione».

Giova ricordare che attorno a queste idee si ritrovarono in seguito, ancora in Svizzera e poi soprattutto nella Francia liberata, personaggi di rilievo nella cultura europea novecentesca: Albert Camus, George Orwell, André Malraux…

L’Europa unita è dunque nata dal pensiero e dalla passione.

Conclusione

Noi festeggiamo oggi la data simbolo della Liberazione dal nazi-fascismo in Italia.

Una data – riconosciamolo – talvolta in passato celebrata in modo troppo retorico o apologetico, quasi che la Resistenza non fosse stata operata da uomini e donne in carne ed ossa, ma da esseri angelicati.

Ma anche una data contro la quale sono cresciute le critiche corrosive o irridenti di chi in realtà non vuole accettare i principi di fondo della Resistenza, ovvero gli ideali di libertà, di democrazia, di giustizia sociale, di pace duratura. Forse a costoro tornerà comodo abbinare la polemica anti-resistenziale a quella anti-europeista.

Per noi non è così.

Per noi, rievocare la Resistenza in chiave europeistica:

è un modo per recuperare le idealità più profonde dei nostri padri e nonni;

è un modo per conoscere meglio la straordinaria ricchezza e varietà della Resistenza, varietà che soltanto chi ignora totalmente la storia può ridurre a un “derby tra fascisti e comunisti”;

è un modo per trarre incoraggiamento e forza per lottare con maggior energia affinché la nostra Europa non sia schiava dei grandi interessi finanziari e dei centri di potere burocratici, ma risponda agli ideali di chi – a differenza di noi – era pronto a pagare (e ha pagato) prezzi altissimi per costruirla.

 

Giorgio Vecchio
Olgiate Olona (VA)

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