“Noi siamo il Myanmar” di Albertina Soliani

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Articolo di Albertina Solani pubblicato su Faro di Roma

 

Sono passati tre giorni dal colpo di stato in Myanmar e sono come trent’anni. Una distanza abissale dal tempo che stiamo vivendo, l’irruzione di un corpo estraneo nella nostra vita. Scene già viste nell’ ’88 e nel 1990: cancellazione del Parlamento appena eletto, messa agli arresti di Aung San Suu Kyi, arrestati migliaia di dirigenti politici, attivisti, giornalisti, artisti. Tutto come allora. Colpisce la ripetitività, e la temerarietà di mettersi contro il mondo e contro la storia.

All’alba del 1 febbraio, a Naypyidaw, qualche ora prima dell’insediamento del nuovo Parlamento, il Tatmadaw, l’Esercito di 500.000 persone, ha arrestato il Presidente della Repubblica U Win Myint e la Consigliera di Stato Aung San Suu Kyi, confinando i parlamentari. Oggi i parlamentari dell’NLD, disobbedendo, si riuniscono a Naypyidaw per costituire il nuovo Governo.

Un colpo di stato vero, con i militari e i loro mezzi che occupano tutto, sbarrano le strade, bloccano le comunicazioni. Chiudono il Paese al mondo, di nuovo. A due mesi dalle elezioni stravinte dall’NLD, il partito di Aung San Suu Kyi. Si capisce bene che i capi militari avevano cominciato a temere che adesso si facesse sul serio, che sarebbe stato ridimensionato il loro potere politico ed economico, la loro presa sul Paese. Il Generale Min Aung Hlaing era deciso a diventare presidente. Queste le vere ragioni. L’accusa di scorrettezze elettorali era il pretesto.

Da molto tempo il confronto con Aung San Suu Kyi era radicale: la democrazia, il pluralismo, il federalismo, lo stato di diritto da un lato; la dittatura militare, la religione di Stato, il centralismo, la Costituzione a misura dei militari, la corruzione come costume politico dall’altro.

Come se la politica appartenesse ai militari, non al popolo. Anche in questo è abissale la distanza dei militari dal popolo birmano.

C’è in gioco in Myanmar qualcosa di eticamente fondamentale: la nonviolenza contro la violenza, la verità contro la finzione e la menzogna.

Tragiche e ridicole ieri le accuse rivolte ad Aung San Suu Kyi in un solo giorno: la mattina è accusata di alto tradimento, con pene da venti anni di carcere alla morte, più tardi è accusata di aver acquistato illegalmente un walkie-talkie, trovato in casa sua.

La storia della Birmania degli ultimi sessant’anni è storia violenta, di regime militare, arresti, carcerazioni, uccisioni, massacri, impoverimento del Paese. L’alternativa è stata il movimento di Aung San Suu Kyi, l’NLD nata in casa sua nell’agosto del 1988.

Nel suo discorso elettorale, prima delle elezioni dell’8 novembre, Aung San Suu Kyi ha parlato del governo come della cura del giardino, che è il Paese: togliere rovi, erbacce, buche, coltivare piante, fiori e frutti. Il popolo, dal 1990, quando è stato chiamato alle urne ha scelto ogni volta in modo plebiscitario lei e il suo partito.

Subito dopo il golpe, il copione dei militari, noto e ripetuto, ha cominciato a dispiegarsi: l’istituzione di nuovi organismi statali con nuovi acronimi e responsabili, il blocco delle comunicazioni e l’oscuramento di internet, la messa in scena di manifestazioni finte con prigionieri comuni liberati e pagati che indossano magliette dell’NLD, si picchiano tra loro perché intervenga l’esercito, tattiche che diffondono false notizie e paure.

Questo golpe, l’ultimo in ordine di tempo, avviene sotto gli occhi del mondo.

Ancor più di prima, nel mondo globale. Già si iscrive nel confronto tra USA e Cina, tra la potenza cinese che ha un lungo confine con il Myanmar e l’UE, la Gran Bretagna, l’Occidente. La Cina è il gigante vicino di casa, che ha lanciato, un anno fa, la strategia della Belt and Road Initiative, la Via della Seta per una leadership nel XXI secolo. Il Myanmar è il primo passo del cammino, verso occidente. Cammineranno gli eserciti, sulla Via della Seta?

Il golpe avviene in piena pandemia. Adesso la governano i militari, è un problema per l’intera umanità, e per l’OMS.

In questi primi tre giorni, dopo il golpe, è nata la disobbedienza civile del popolo. “Resistete in modo risoluto, non piegatevi”: queste le parole attribuite ad Aung San Suu Kyi nel messaggio che gira sui social.

Sono partiti i medici, poi donne, vecchi, bambini sui balconi facendo rumore con pentole e oggetti metallici, e il suono prolungato dei clacson. Nella strategia dei militari c’è anche la provocazione perché la gente esca per la strade a manifestare, così giustificano la repressione. Le persone sono rimaste in casa. Un paese intero è agli arresti domiciliari. Può essere l’inizio di una primavera birmana.

Tra la popolazione c’è sgomento. Questi giorni possono essere l’inizio di un periodo di ulteriore impoverimento e sofferenza. Per i giovani il segno del furto del loro avvenire.

Il Myanmar oggi, di fronte al mondo, spiega cosa sta accadendo alla democrazia quando essa nasce dal risveglio dei popoli. Sta avvenendo su tutta la terra, in molti luoghi. La gente, specialmente i giovani, chiede dignità e giustizia, il potere risponde con la repressione violenta. Sono le immagini di questo tempo storico.

Accade nelle piazze del Nord Africa, dell’Egitto, della Turchia e del Medio Oriente, nelle città americane e nei villaggi dell’Amazzonia, nei paesi dell’Est, in Ucraina, in Russia, a Hong Kong.

Avviene oggi in Birmania.

La democrazia in Myanmar è la nostra democrazia, la loro libertà è la nostra libertà. Come ci ha sempre detto Aung San Suu Kyi. Nel tempo globale dell’umanità ci unisce la pandemia, ci unisce la ricerca della democrazia.

Che cosa sta facendo la comunità internazionale per il Myanmar? Lo shock è stato forte, dopo che negli ultimi anni l’opinione pubblica occidentale ha visto demolire l’icona dei diritti umani. Come se non si sapesse che Aung San Suu Kyi aveva scelto la politica come l’espressione della sua responsabilità verso il suo popolo. Con il suo concreto esercizio, nelle condizioni date, così estreme, per fare argine al potere politico dei militari e restituire la sovranità al popolo. Uno sguardo tragicamente sfocato quello dell’Occidente in questi anni nei confronti di Aung San Suu Kyi. Come non capire che le sue parole e i suoi silenzi, i suoi gesti e le sue scelte erano iscritti nella complessità mortale del suo Paese?

Oggi la comunità internazionale esprime ferma condanna del golpe. È la voce delle loro comunità.

Ma è fondamentale che oggi l’opinione pubblica del mondo, soprattutto dell’UE e dell’Italia, si faccia sentire prestando la propria voce ad Aung San Suu Kyi e al suo Popolo che i militari hanno messo a tacere.

Chi è il Tatmadaw per sfidare il mondo? Contro ogni diritto, contro ogni legge, contro ogni valore umano?

Il Card. Charles Bo, arcivescovo di Yangon, nel suo scritto di ieri ha supplicato il dialogo tra le parti per un futuro di pace del Myanmar. Per dialogare si deve togliere ogni restrizione, si devono liberare gli arrestati.

Si dia spazio alla politica, tacciano le armi, le truppe ritornino in caserma.

Questo abbiamo imparato dalle tragedie del XX secolo, questo devono fare oggi la politica, le organizzazioni internazionali, quelle dei diritti umani e della cooperazione, gli Stati democratici, le Religioni, le Università, le associazioni di ogni settore che lavorano per lo sviluppo umano.

È la sfida politica di questi primi decenni del XXI secolo: lasciar vivere e far crescere la democrazia come il giardino che ama coltivare Aung San Suu Kyi.

Questo ci dice oggi il Myanmar, entrato di prepotenza nella storia contemporanea con la sfida più radicale: la pace della nazione, la riconciliazione, lo sviluppo inclusivo, la democrazia. È la potenza della libertà dei popoli che fronteggia le schiavitù dei conflitti, degli interessi, delle armi. Il popolo birmano ha pagato e sta pagando prezzi altissimi. Sono tutti crocifissi, come dice Charles Bo. Il popolo birmano sta salvando la dignità dell’uomo, anche per noi.

Noi, cittadini del mondo, siamo oggi tutti cittadini del Myanmar.

Dov’è ora Aung San Suu Kyi? Abbiamo diritto di saperlo. Lei appartiene al mondo.

Chiediamo per lei e per il suo popolo il massimo rispetto.

Sia liberata subito Aung San Suu Kyi.

Sia liberato il popolo birmano.

Adesso.

Quello che oggi accade in Birmania sta arando il solco della storia di questo secolo in Asia e nel mondo. È il solco per un nuovo raccolto, seminato dalle coscienze di tutti noi.

 

Albertina Soliani

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