Si avvia una ricerca sulla fotografia della Famiglia Cervi, una raccolta di informazioni sulla origine e sulla storia dello scatto del 1937. Chi si ricorda?
«Durante una delle mie ultime ricerche, mi è capitato di accostare con uno sguardo diverso una immagine che si trova da oltre mezzo secolo sotto gli occhi di tutti. Vista milioni di volte, perché – stampata a cartolina – veniva e viene ancor oggi distribuita ai visitatori del Museo Cervi. E ovunque pubblicata. Del resto si tratta dell’unica che si sia conservata della famiglia Cervi prima della tragedia.
Il primo paradosso. Sono presenti anche le due ragazze, Diomira e Rina, ma è come se non ci fossero, perché quasi nessuno, fra tutti quelli che hanno avuto per le mani questa foto, sa che i fratelli Cervi erano nove e non sette. A confermare che si vede soprattutto quel che si vuol vedere.
Si tratta di una immagine nata a scopo privato, del tutto consueta, la famiglia raccolta intorno ai genitori. I Cervi di questa foto non si distinguono in nulla dagli altri nuclei contadini del tempo. Sono composti, orgogliosi, si direbbe, del loro essere in tanti. Nulla trapela della loro eccentricità e del loro coraggio. Come era d’uso per i gruppi familiari dell’epoca, anche questa rappresenta il chiamarsi insieme – da parte della gente di casa – nel luogo in cui tutti si ritrovano costituiti nella loro appartenenza anche attraverso la cerimonia della fotografia con tutti i suoi codici. Il primo dei quali è la consapevolezza del momento. E quindi davanti al fotografo non si ride, come è noto. Si assume un’espressione consona, se non proprio severa.
Risale con ogni probabilità al 1937, e a una occasione in cui si doveva comparire all’onore del mondo. Perché tutti portano i loro abiti migliori, cravatte, panciotti e fazzoletti da taschino gli uomini, sobrie le ragazze, ma i vestiti che indossano non sono da lavoro. Ripercorrendo le vicende della famiglia, ho maturato la convinzione che sia stata scattata per il matrimonio di Rina, la più piccola delle due figlie, che il 10 aprile di quell’anno andava sposa a un ragazzo di Bibbiano, e lasciava i Campi rossi per un luogo distante, considerati i canoni dell’epoca.
Mentre Diomira, che si era sposata a Campegine, era rimasta nei prati di casa. Non sono in grado di dimostrarlo. Però, nella usuale contegnosità del gruppo, un accenno di contentezza increspa le labbra dei tre fratelli più grandi, e anche di Genoeffa e delle ragazze. Si trattava quindi di una occasione felice.
E poi, se siamo nel ’37, mancano nella foto due nuore, un genero e i primi nipotini. Era per fissare sulla lastra fotografica l’integrità del nucleo fondativo che stava per subire una cesura, separandosi dall’ultima sorella? La colonna finta è l’ultimo segreto da strappare a questa immagine inflazionata dagli sguardi,
Lo sfondo è la stalla dei Campirossi, la prima, quella che i Cervi trovano trasferendosi nel podere come affittuari per San Martino del ’34, tre anni prima. E questa è l’unica traccia che ne rimane, perché a partire dal 1938, nella stagione in cui la famiglia esplode di energia e di progetti innovativi, tutta la parte dell’edificio dedicata al bestiame sarà ristrutturata fino a triplicare di volume, e assumerà l’aspetto più regolare e ordinato che conserva nelle immagini degli anni Cinquanta e Sessanta.
Il fondale appare infatti molto rustico, con le finestre e i finestrini fuori simmetria e il muro di sinistra arretrato rispetto a quello di destra, nel punto in cui – fra Antenore e Aldo – la parete presentava evidentemente una rientranza. Alla quale doveva essere appoggiato il manico di un attrezzo che finisce nel nulla. Perché la striscia bianca e intonsa, senza ombreggiature, che si trova dietro ad Aldo non è affatto una colonna, come potrebbe apparire, ma sembra invece un ritocco fotografico. A margine del quale, a ben guardare, si intravede appena la punta di un altro manico parallelo al primo. Si trattava forse delle stanghe di un carretto? E l’espediente della colonna finta ha evitato che dietro le spalle del più famoso fra i fratelli spuntassero due corna?
Neppure l’archivio dell’Istituto Cervi conserva l’originale di questa immagine, scattata da chissà quale fotografo delle campagne fra Campegine, Praticello e Sant’Ilario, di quelli che lavoravano in studio e nei cortili.
Ma forse qualcuno ne ha sentito parlare, tramanda memorie di casa, ne custodisce una vecchia copia. E’ pratico di fotografi locali.
Si direbbe una ricerca impossibile, e per questo ancora più appassionante.
Come ogni volta che un’icona riprende vita.»
Laura Artioli
maggio 2021
Laura Artioli lavora nell’ambito socio-educativo e nella ricerca storico-antropologica. Tra i suoi libri ricordiamo Paura non abbiamo. L’Unione donne italiane di Reggio Emilia (IBC, 1993) e Storia delle storie di Lucia Sarzi (Corsiero, 2014). Nel 2020 esce per Viella il libro Con gli occhi di una bambina. Maria Cervi, memoria pubblica della famiglia.
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