Il 16 luglio 2024 si è spento, all’età di 97 anni, il partigiano Giglio Mazzi. Il ricordo dell’Istituto Alcide Cervi:
«A uomini, e donne, come Giglio Mazzi si chiede sempre l’impossibile. Si chiede di non andarsene mai, di non smettere mai di essere la storia che sono, la memoria che ci portano, l’esempio che ci rappresentano. Chiediamo a loro di essere infiniti, quando è solo infinito il bisogno che abbiamo di vite straordinarie a cui ispirare le nostre.
Poi succede davvero, e spesso accade che ci si rammarica di non averli ascoltati abbastanza, di non averli ricordati a sufficienza. Il partigiano Alì almeno ci lascia con tanta memoria, con un racconto perpetuo di sé, delle sue imprese, delle sue passioni, della sua tenace sopravvivenza: alla fame, ai fascisti, ai briganti, alle prove della vita, alla vecchiaia.
Leggeremo moltissime volte la sua vicenda partigiana, la sua biografia quasi cinematografica, in questi giorni. Così come l’abbiamo letta, ascoltata e vista in questi anni, senza stancarci solo una volta. Sappiamo e sapremo moltissimo della sua vita partigiana. Quello che sanno in pochi è il racconto del suo racconto, per così dire. Ovvero, non solo che combattente era stato, ma che testimone è stato, fino all’ultimo. A Casa Cervi abbiamo avuto spesso questo privilegio: vedere il testimone Giglio all’opera, rapire i ragazzi con il tuonare della sua voce, far sobbalzare le insegnanti con la sua mimica travolgente. Lasciare sempre, sempre il segno. Ancora oggi, scuole vicine e lontane ci chiedono di lui, dopo anni. “Come sta Giglio? Possiamo incontrarlo ancora?” Non importa quanto improbabile sia la richiesta, tutti quelli che sono stati avvolti dall’ energia della sua figura eretta, in mezza alla storia della Liberazione, continuano a chiedere di lui. Del partigiano Alì.
Lo abbiamo intervistato più privatamente, nel suo salotto, nella penombra dei ricordi più toccanti. Quelli che non si possono raccontare ai ragazzi, quelli che si aspetta decenni a raccontare a se stessi. Giglio Mazzi conosceva bene il peso della guerra, lo portava nel suo corpo, nella sua coscienza. Il fardello della morte: la morte sfiorata, la morte data, la morte presa. E sapeva dosare la gravità dei silenzi tanto quanto il volume delle sue parole, sempre cantate forti. Era consapevole in ogni momento di essere una fonte vivente, e della responsabilità che questo comporta, in ogni diverso contesto. Ad ogni 25 aprile in cui ha partecipato, e sono stati tanti, la folla era sempre di più, ad ascoltarlo. La stessa folla che lo aiutavamo ad attraversare davanti al palco, e che lo aspettava sempre. “Quest’anno non c’è Giglio?” La storia e l’energia erano sempre le stesse, ma tutti ne volevano ancora.
Non tutte le grandi storie diventano memoria. E non tutti i protagonisti, persino gli eroi, sanno o vogliono diventare testimoni. Narratori istintivi o razionali di gesta e di senso. Giglio Mazzi lo era, grazie ad un carisma innato, ad una tempra fisica fuori dal comune e ad una certa dose di appagamento che nella vita si era conquistato. Dava l’impressione di essere un uomo completo, il ragazzo Giglio cresciuto nelle privazioni e nella guerra, rinato due volte partigiano, prima Febo e poi Alì, in una spericolata reincarnazione gappista che l’irruenza della giovanissima età gli aveva consentito di affrontare. Un uomo costruito nel dopoguerra con le sue convinzioni politiche, l’orgoglio del servizio alla Libertà prima e all’ordine poi, il dirigente saldo, il professionista di successo. Un uomo che rivendicava proprio nella Resistenza la sua piena formazione: esistenziale, morale e politica.
Dava a molti la stessa impressione: di essere un uomo davvero felice, ed orgoglioso. E dava a tutti lo stesso desiderio di familiarità. Essere coinvolti nella sua aura granitica, essere stretti da quella mano vigorosa, che non ti lasciava fino a che non avevi capito. Che lui era ancora forte. Che era ancora qui. Che non era stanco di raccontare. Alimentando quella promessa impossibile di non andarsene mai.
Allo stesso modo, è impossibile separare il coinvolgimento personale dal ricordo doveroso. Ci saranno altre sedi, forse altri personaggi adatti per un commiato istituzionale: la figura di Giglio esigeva un ingaggio individuale, proprio come quella stretta di mano inossidabile. Perché con Giglio era sempre e comunque una questione privata.
E così sarà, per lui, anche questo saluto. Per chi come me ha avuto la fortuna di entrare nella sfera familiare dei suoi ricordi e delle sue inquietudini, le uniche che gli ho visto mostrare: quando temeva che il suo servizio di prima linea alla Resistenza, il suo “lavoro sportivo” diceva la lingua segreta della clandestinità, fosse tramandato nel modo sbagliato. Che la violenza rimanesse violenza e basta, e che il crepitare delle armi fosse più forte delle parole, delle motivazioni, dell’amicizia, della fratellanza con i compagni di lotta, dell’amore. Del senso del tutto che ogni partigiano ha messo nella propria esperienza di combattimento, cioè di vita e di morte. La sua memoria intervista “Non Eravamo terroristi” è un libro imperfetto, il primo che la sua storia avrebbe meritato, nato da serrati confronti con il sottoscritto e Denis Fontanesi, quasi 10 anni fa. Ma almeno esiste. Ed esisterà sempre l’ineluttabile forza che il partigiano Febo, il Gappista Alì, l’amico Giglio ci ha trasmesso con il suo secolo di vita verissima».
Mirco Zanoni
Coordinatore Culturale Istituto Alcide Cervi