L’EMILIA CONTRO I CLAN: LA SPERANZA SOPRAVVIVE SE L’ANTIMAFIA È DONNA

Questa è la storia delle due “A”.  A come Albertina, A come Antonella. Due donne. Amiche a distanza.

La prima abita a Parma ed è graniticamente emiliana. La seconda abita a Palermo ed è altrettanto graniticamente siciliana. Potrebbe essere la premessa di una divertente storia privata ed è invece una storia pubblica, di quelle che lasciano il segno. Perché Albertina (Soliani)  è la presidente dell’Istituto Cervi di Gattatico, provincia di Reggio Emilia, uno dei simboli più alti della storia della Resistenza al nazifascismo. Mentre Antonella (De Miro) guida la prefettura di Palermo, uno dei simboli più alti della Resistenza alla mafia. Nessuna delle due è una donna vistosa, e nemmeno ambisce ad esserlo. Nè fisici scolpiti, né arie maliarde o intellettuali. In un mercato tra i banchi di frutta o di insalata, sarebbe anzi difficile distinguerle in mezzo alla massa. Albertina, con la sua proverbiale gonna da suora laica, Antonella con i suoi sobri tailleur da professoressa di greco e latino. Eppure sarebbe anche difficile immaginare nell’Italia di oggi una coppia di donne più affidabile, più combattiva, più in grado di insegnare al Paese il senso delle istituzioni.

Le senti parlare,  magari a distanza di ore l”una dall’altra, e ti domandi per quale motivo questa nazione non debba essere guidata da loro. In realtà le due donne A non hanno sempre vissuto lontano. C’è stato anzi un momento, diciamo un certo numero di anni, in cui si sono trovate fianco a fianco. E’ accaduto dal 2009 al 2014, e non è stato un periodo particolarmente amato dai clan che si stavano prendendo Reggio Emilia.

Perché Antonella De Miro arrivò da Prefetto nella città “più rossa d’Italia” e sentì subito l’odore di mafia che la classe dirigente reggiana non sentiva o preferiva non sentire. E fece funzionare senza paura l’istituto dell’interdittiva, provvedimento che consente di escludere dagli appalti pubblici le imprese in odore (appunto) di mafia. Erano gli anni del terremoto e della ricostruzione, o dell’alta velocità, in un contesto in cui  movimento, terra ed edilizia erano già “sotto controllo” delle imprese dei clan o delle imprese colluse. Antonella costrinse la città a fare i conti con se stessa, spiegò che lei, da siciliana, la mafia la riconosceva subito.  Chi ha seguito il processo Aemilia l’ha sentita spesso maledire dal pubblico dei parenti degli imputati.

Chi invece non l’ha maledetta ma l’ha vissuta come amica, è stata proprio la cattolicissima Albertina, un passato da senatrice e anche da sottosegretaria all’istruzione nel primo governo Prodi. La quale  uno spiccato e scomodo senso della legalità se lo porta dietro da sempre. Una foto galeotta del Febbraio del 2002 la riprende sul palco allestito in piazza Navona dal manipolo di parlamentari del comitato “La legge è uguale per tutti”, proprio mentre Nanni Moretti tuona dal microfono “con questi dirigenti non vinceremo mai”. E non è certo cambiata all’Istituto Cervi.

A Reggio le due A si sono date la mano e confidate speranze e preoccupazioni. E, pur venendo da storie e retroterra così diversi, si sono ritrovate su un principio più volte ripetuto da palchi e microfoni: che come si era ribellata al nazifascismo  l’Emilia avrebbe dovuto ribellarsi alla mafia.  Che la terra dei fratelli Cervi  non poteva finire nelle mani della ‘ndrangheta. Principi non straordinari o da geni della comunicazione di massa. Ma semplici, istintivi. Eppure, nell’afasia generale, schioccanti come fruste.

L’altro giorno, alla libreria Ambasciatori di Bologna, l’ Albertina l’ha ripetuto. Con una forza e un’intensità particolari. Gonna blu monasteriale, camicetta a fantasia in tinta, ha detto che l’Emilia deve reagire, che non si possono perdere più nemmeno i mesi, che la politica non può trastullarsi con i drammi del presente e che il popolo emiliano deve interrogarsi molto e infine ribellarsi. Che forse ha sbagliato per un malinteso senso di solidarietà verso chi veniva da regioni lontane, ma che le imprese devono recidere l’alleanza con i clan che abbassano i costi. Parlava con pathos lucidissimo, e ha ricordato l’amica, l’ Antonella e il suo rigore, quando ha sciolto il comune di Brescello con le prove di convenienza e compiacenza, acquiescenza e accondiscendenza.

Ritratto di una cultura, mica di un reato, perciò tanto più pesante. Guardavo e ascoltavo, e pensavo che se l’antimafia è donna, e sempre più lo è, queste due donne sono l’immagine dell’antimafia migliore.

Loro, le due A, l’asse del vero cambiamento possibile.

Nando dalla Chiesa
dal Il Fatto Quotidiano, 17.06.19

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