“A me ne basterebbero sette”, disse il fascista al Comitato Federale di Reggio Emilia riunito per decidere la rappresaglia, dieci al posto di uno, dopo l’uccisione di Davide Onfiani, il segretario comunale fascista di Bagnolo in Piano.
I sette erano i fratelli Cervi, dei Campi Rossi di Gattatico. Erano nel carcere dei Servi. Poi aggiunsero Quarto Camurri, di Guastalla, che aveva abbandonato la Repubblica Sociale Italiana ed era a casa dei Cervi, la notte del 25 novembre, quando vennero ad arrestarli.
Li portarono al Poligono di Tiro la mattina presto del 28 dicembre di 76 anni fa. Oggi è rimasto come allora. Un luogo della città che custodisce la coscienza civile dei reggiani e degli italiani. Un mese dopo, in quello stesso luogo, furono uccisi don Pasquino Borghi e altri 8 partigiani.
Un luogo che attende ancora una decoro degno della memoria che custodisce.
Ci sono cose nella vita che valgono da sole la vita stessa. Come la libertà e la giustizia, la vita degli altri e la Pace. Dopo l’eccidio, a casa, le donne, in piedi con i piccoli per mano, continuavano a vivere perché la vita, non la morte, avesse l’ultima parola.
In quei giorni, sul finire del ‘43, la Resistenza era agli albori. I Cervi l’avevano fatta germogliare nella campagna e su in montagna, e a lungo con la lotta clandestina antifascista. Mentre si concludeva troppo presto la loro vita, la Resistenza metteva le sue radici per continuare fino al 25 aprile.
Cambiò, in quei giorni, la storia dell’Italia e dell’Europa, la storia del mondo. Il sogno dei Cervi prendeva il largo, e Casa Cervi diventò il simbolo della nuova coscienza democratica del popolo italiano. Il luogo dove tornare, sicuri di trovare la bussola.
Continuano a vivere, i Cervi, nel luogo che custodisce la terra, le stanze e le stalle, il cielo e l’orizzonte che guardavano con i loro occhi, che abitarono con le loro speranze, i loro amori, la loro fatica, il loro canto.
Continuano a vivere, i Cervi, nella passione dei giovani che vogliono salvaguardare il pianeta per il futuro dell’umanità.
Continuano a vivere, i Cervi, nell’accoglienza degli uni verso gli altri, quante ne avrebbero inventate per accogliere e sostenere gli immigrati, loro che avevano aperto la loro casa a tutti.
Continuano a vivere, i Cervi, nel grido di giustizia e di pace dei popoli che patiscono l’ingiustizia, la fame, la guerra, la violenza in molte aree del mondo, perché la giustizia e l’uguaglianza erano il pane e il companatico di cui si nutrivano, e un piatto di pasta non lo negavano a nessuno.
Continuano a vivere, i Cervi, nel bisogno di conoscenza, di scienza, del consapevole e libero
uso delle nuove tecnologie, loro che studiavano la sera e amavano i libri e la cultura come il bene più prezioso, e il respiro del pensiero libero.
Continuano a vivere, i Cervi, nella coscienza dei cittadini che non fanno sconti sul terreno dell’etica e della legalità, che hanno passione politica e sanno che la partecipazione è il segno più alto della sovranità del popolo.
Continuano a vivere, i Cervi, accanto a chi crede che le tenebre non prevarranno, e che la storia può cambiare se noi ci siamo.
Continuano a vivere, i Cervi, accanto a chi non si arrende mai, perché nel buio della storia sa vedere l’alba di un nuovo giorno.
Continuano a vivere, i Cervi, unendosi al canto di chi intona “Bella Ciao” in ogni angolo della terra.
Chissà quali pensieri avranno attraversato il loro animo in quel Natale del ‘43, il loro ultimo Natale. Il Padre Alcide racconta che in quella notte era previsto un piano per farli scappare, fu rimandato. E che Ovidio recitava le litanie, perché le sapevano meglio dei loro aguzzini.
È certo che tutto ciò che erano, e che speravano, si raccoglieva in quelle ore, con tutta la forza morale che avrebbe rovesciato le sorti della storia. Una forza che ha fatto di 7 fratelli una cosa sola, capace di prendere in mano il mappamondo e di farlo girare per il verso giusto.
Ucciderli non bastò.
Erano destinati a vivere per sempre.
ALBERTINA SOLIANI
Presidente Istituto Alcide Cervi