«Quando la memoria è quella del Male: la storia di Celeste, Pantera nera del Ghetto». Intervista a Fabio Pisano

Sotto la Grande Quercia
Il blog di Raffaella Ilari


Spettacolo in concorso
Liberaimago (Napoli)
CELESTE

 

Una vicenda davvero singolare quella che la compagnia napoletana Liberaimago porta in scena con “Celeste”, testo e regia di Fabio Pisano, con Francesca Borriero, Roberto Ingenito, Claudio Boschi, secondo spettacolo in concorso al Festival.
Non si sa molto di lei, ma dalle cronache del tempo emerge la sua storia spietata: Celeste di Porto, detta la “Pantera nera”, era una bellissima ragazza di diciotto anni che, negli anni della Seconda Guerra Mondiale, dopo il rastrellamento del ghetto da parte dei tedeschi, decide di diventare una delatrice e di vendere gli ebrei. Da vittima a carnefice, la storia di Celeste viene portata in scena senza alcuna pretesa di assolverla, ma con l’urgenza di narrare e di mostrare gli orrori di quel periodo storico.

Una storia poco nota e molto emblematica, come l’hai incontrata?
Per caso, Celeste l’ho incontrata per caso su un vecchio articolo di giornale. È avvenuto un vero e proprio corto circuito nella mia mente, nella mia immaginazione. Viviamo – com’è giusto che sia – con una visione chiara e univoca di quel vergognoso periodo storico. Ci sono stati i carnefici, e le vittime. È e sarà sempre così. Ma quando una potenziale vittima diviene la più feroce dei carnefici? Ho provato a rispondere a questa domanda.

Chi era Celeste, la pantera nera del Ghetto e come ti sei avvicinato alla sua biografia?
All’epoca dei fatti Celeste Di Porto era una giovanissima diciottenne. Una ragazzina; dicono un po’ sui generis, sopra le righe. Io non lo so, non l’ho conosciuta. Ho letto di lei, ho letto ciò che si dice, si racconta lei abbia fatto. Mi ci sono avvicinato prima mediante ricerche classiche, di archivio, tra vecchi articoli, come dicevo, appunti, notizie. Poi fisicamente nel ghetto, passandoci qualche giorno con la compagnia Liberaimago. Abbiamo incontrato molte persone che in modo indiretto sapevano di aneddoti e accadimenti che smentivano o in alcuni casi potenziavano quanto letto. Poi, abbiamo conosciuto la nipote diretta di Anticoli Lazzaro, e lì siamo scesi realmente nell’apnea della storia che si prova a dimenticare.

Da una parte Celeste, dall’altra Anticoli Lazzaro, pugile innocente, che per mano di Celeste sarà inserito nella lista nera di Hitler al posto di quello del fratello. Come hai lavorato su questo personaggio?
Il personaggio di Anticoli nell’opera drammaturgica non c’è, ma c’è. È presente nella sua unica, decisiva testimonianza. È presente con quella incisione nel muro della cella 306 nel terzo raggio del carcere di Regina Coeli. Una incisione chiara, senza nessun tipo di equivoco: “Sono Anticoli Lazzaro, detto “Bucefalo”, pugilatore. Se non rivedrò la famiglia mj è colpa di quella venduta de Celeste di Porto. Rivendicatemi”. È presente così, perché credo sia giusto che echeggi sempre la sua denuncia, il suo urlo disperato, quell’urlo lanciato un attimo prima del terribile eccidio delle Fosse Ardeatine.

Abituati alla narrazione teatrale di una Memoria del Bene, quella di Celeste è invece una storia spietata e scomoda. Come e perché sei partito da una memoria biografica del Male e come è stata accolta?
Sono partito da Celeste perché credo che raccontarla, raccontarne le gesta feroci, spietate, sia un modo diverso per comprendere ciò che accadde in quel periodo. Nel testo, Celeste ad un certo punto dirà “non guardateme così ché pure io c’ho una certa sensibilità che ve credete. Non giudicate, perché mai nessuno s’è dovuto trova’ in una savana senza savana, tra animali senza animali, de fianco ‘a morte senza vole’ morì.” Ecco. Credo sia necessario ascoltare questa voce. Ciò potrebbe aiutare a farci comprendere ancor di più le storture dell’orrore, le sue infinite sfumature. Senza, ripeto, alcuna pretesa di assolverla, o di giudicarla. Il Teatro affida nelle mani dello spettatore un cristallo che va a rimpinguare la sconfinata rifrangenza dell’anima. Proviamo a fare questo.

Il Festival di Resistenza quest’anno compie vent’anni. Come può il teatro, in riferimento al periodo che stiamo vivendo, contribuire a disegnare un nuovo mondo?
Il Teatro è complice della Memoria. Il nuovo mondo deve sempre essere consapevole del perché, sia nuovo. E per essere nuovo, devi conoscere il vecchio. Devi tirar via le rughe e tenere quel volto ch’è sempre lo stesso ed è sempre diverso. Oggi a modo suo, il mondo assiste a numerosi, silenziosi stermini. Penso a quello che accade nel Mar Mediterraneo, ad esempio. Il Teatro questo deve fare. Essere testimone. Concludo dicendo che per noi compagnia Liberaimago, è un onore immenso essere al Festival di Resistenza. E non solo con retorica. L’Istituto Alcide Cervi è uno scrigno ricco di memoria, ricco di commozione.

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