“Il dovere della memoria”: orazione civile di Maurizio Viroli — Reggio Emilia, 28 dicembre 2024

Di seguito la trascrizione completa dell’orazione civile del Prof. Maurizio Viroli (Princeton University), pronunciata il 28 dicembre 2024, in occasione delle Celebrazioni dell’81° anniversario dell’eccidio dei Sette Fratelli Cervi e di Quarto Camurri, presso la Sala del Tricolore del Comune di Reggio Emilia. 

Il dovere della memoria

Reggio Emilia, Sala del Tricolore, 28 dicembre 2024

Maurizio Viroli
Princeton University – The University of Texas, Austin

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Il tempo cancella la memoria delle persone e delle azioni, anche le più grandi, anche le più nobili. Pochi mesi fa, sono andato a rendere omaggio a Giuseppe Mazzini al cimitero di Staglieno. Sulla austera tomba in stile neoclassico solo pochi fiori secchi e qualche attestato ormai illeggibile di mazziniani. A pochi passi c’è la tomba più modesta di Ferruccio Parri, eroe della Resistenza, uno dei più splendidi esempi di dedizione all’ideale della libertà nella storia d’Italia. Anche quella è ormai abbandonata.

Ma voi, amici di Casa Cervi, con il vostro impegno e la vostra passione impedite che anche la memoria dei Fratelli Cervi muoia nell’indifferenza che domina il nostro tempo. Per questo, vi sono sinceramente e profondamente grato. Sono grato anche al Comune di Reggio Emilia e alle altre istituzioni che ogni anno promuovono la commemorazione dell’atroce assassinio dei Fratelli Cervi perpetrato dai fascisti il 28 dicembre 1943.

All’alba del 25 novembre 1943 un plotone della 79° Legione della Guardia nazionale repubblicana, agli ordini del capitano Cesare Pilati, circonda e attacca Casa Cervi. I fratelli Cervi tentano di difendersi con armi automatiche e bombe a mano. I fascisti rispondono e incendiano il fienile. Per salvare le donne e i bambini, i fratelli Cervi – Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio ed Ettore – insieme a papa Alcide, e agli altri membri della banda Cervi, Quarto Camurri, Dante Castellucci e gli stranieri – John Peter Freitas (Jeppy), David Bastiranese (Basti), Samuel Boone Conley (McSid) e Anatolij Tarassov – si arrendono. Vengono arrestati e trasportati al carcere dei Servi a Reggio Emilia. Le cinque donne presenti – Genoeffa Cocconi, la madre dei Cervi, Margherita Agoleti, moglie di Antenore, Iolanda Bigi, moglie di Gelindo, Irnes Bigi, moglie Agostino e Verina Castagnetti, compagna di Aldo – rimangono per strada con i loro dieci bambini a guardare impotenti la casa in fiamme.

Margherita ci ha lasciato una testimonianza che rende l’idea dello stato d’animo delle donne rimaste a casa dopo l’arresto dei loro uomini.  “Quando i fascisti presero i nostri uomini siamo andati dai vicini, a casa Barani, erano dei compagni che lottavano. Sapendo questo i parenti vennero a prendere i bambini […] dopo un’ora o due ho detto che volevo andare a casa, avevo paura di trovare uccisi i nostri uomini sulla strada dove li avevamo lasciati. Andai da sola, non c’era nessuno, soltanto una guardia sul ponte […] andai sotto il portico, la stalla bruciava, le bestie scappavano per i campi, che disperazione! […] disperata aprii l’uscio della cucina, c’era una parte dei fascisti rimasti di fronte a un grosso fuoco che arrostivano cotechini con la cesta del pane e dei bottiglioni davanti. Bevevano come fossero stati ad una festa”.

Questa immagine vale più di una biblioteca di studi per capire chi fossero i fascisti. Hanno appena portato in carcere tutti gli uomini e si siedono da padroni alla loro tavola, profanano la cucina, lo spazio santificato dagli affetti, dal lavoro e dalla preghiera che riuniva tutta la famiglia. Nessun sentimento di pietà per le vittime della loro ferocia, nessun rispetto per il luogo, nessun sentimento di onore militare. Solo esseri che non hanno più nulla di cristiano e di umano possono agire così.

Con il passare dei giorni, i Cervi in carcere si rendono conto che la fuga è impossibile. Capiscono che saranno messi a morte. “Ci rassegneremo al destino che ci attende”, scrive Gelindo i 16 dicembre “Spero che gli altri ritorneranno a casa al più tardi a fine guerra e così io se ci sarò ancora, per me però non mi faccio illusioni”, aggiunge Aldo.

Il 27 dicembre, intorno alle 18, uno sconosciuto uccide con un colpo di pistola Davide Onfiani, segretario comunale di Bagnolo in Piano. Il capo della provincia, Enzo Savorgnan si rivolge al Ministero dell’Interno per chiedere l’autorizzazione a mettere in atto un’immediata azione di rappresaglia. Ottenuta l’autorizzazione, Savorgnan convoca la sera stessa un tribunale straordinario con il mandato di emettere un verdetto di pena di morte contro i fratelli Cervi e Quarto Camurri. All’alba della mattina dopo, i sette fratelli e Quarto Camurri vengono trasportati al poligono di tiro di Reggio Emilia e fucilati.

Fu un assassinio, non un atto di guerra. I fratelli Cervi e gli altri si erano arresi. Arresi, questa è la parola chiave. Nessun diritto di guerra permette di uccidere il nemico che si è arreso. Il combattente che depone le armi e alza le braccia non è più un nemico. È un essere umano e deve, quindi, essere trattato secondo la legge morale e secondo il diritto dei popoli: può essere incarcerato ma devono essere rispettate la sua vita e la sua dignità.

Ma il fascismo conosce solo la legge della forza. Fin dagli inizi ha deriso la legge morale e il diritto dei popoli. Le giudicava vane dottrine che gli individui e i popoli deboli invocano per coprire la propria debolezza.

Non si dimentichi mai che il fascismo nasce con l’assassinio a sangue freddo dell’avversario politico inerme. Valgano i fatti: il 23 agosto 1923, gli squadristi di Italo Balbo massacrano don Giovanni Minzoni ad Argenta; il 10 giugno 1924, per ordine di Mussolini viene assassinato Giacomo Matteotti; il 15 febbraio 1926, a causa delle ferite subite per mano fascista, muore a Parigi Piero Gobetti; il 7 aprile 1926, dopo essere stato ripetutamente aggredito dei fascisti, spira Giovanni Amendola; il 27 aprile 1937, si spegne in carcere Antonio Gramsci; il 9 giugno 1937, Carlo e Nello Rosselli sono barbaramente trucidati per ordine diretto del governo italiano. L’elenco potrebbe continuare. L’amore di patria dei fascisti è assassinare italiani. Non si dica che gli omicidi e le condanne al carcere e al confino erano necessarie per salvare lo stato liberale. I fascisti hanno ucciso Italiani perché loro scopo era distruggerlo, come hanno fatto con sistematica determinazione.

Il 30 ottobre 1922, quando Vittorio Emanuele III chiamò Benito Mussolini a formare il governo, non c’era in Italia alcun pericolo di rivoluzione bolscevica. A sostenerlo non sono stati gli antifascisti ma Mussolini stesso: “Noi – scriveva il 2 luglio 1921 – pensiamo che la guerriglia civile si avvia all’epilogo […] Dire che un pericolo ‘bolscevico’ esiste ancora in Italia significa scambiare per realtà certe oblique paure. Il bolscevismo è vinto. Di più: è stato rinnegato dai capi e dalle masse.”

Dobbiamo liberarci dal luogo ormai purtroppo comune che “il fascismo ha fatto anche cose buone”. Parlino i fatti. Fra il 1925 e il 1926 il governo Mussolini ha emanato le cosiddette “leggi fascistissime” che hanno tolto agli italiani la libertà di parola e di stampa, la libertà di associarsi in partiti politici e in sindacati (ad eccezione del partito e dei sindacati fascisti) e la libertà di sciopero. Ha istituito il tribunale speciale per la difesa dello Stato al fine di perseguire i reati di antifascismo. Fra il 1931 e il 1935 ha scatenato una brutale repressione in Cirenaica e la guerra di conquista in Etiopia. Nel settembre del 1938 ha emanato le famigerate leggi razziali volte a colpire i cittadini italiani di razza ebraica. Il 10 giugno 1940 Mussolini ha dichiarato guerra all’Inghilterra, ha aggredito la Francia già sconfitta, e ha mandato gli italiani a morire in Africa, in Grecia, nei Balcani, in Russia. Nel settembre del 1943 ha fondato, per ordine di Hitler, la repubblica sociale italiana.

Le presunte ‘cose buone’ del fascismo – le colonie estive, le bonifiche delle paludi, le opere assistenziali per la maternità e l’infanzia – sono del tutto irrilevanti di fronte al male che il fascismo ha inflitto all’Italia e agli Italiani. Quelle cosiddette cose buone non erano tali per la semplice ragione che Mussolini le ha fatte non per il bene degli Italiani, ma per rafforzare il consenso al regime: il consenso di uomini e donne che lo stesso regime aveva reso servi. Se avesse voluto il bene degli Italiani, il fascismo avrebbe lasciato loro il bene più prezioso, la libertà. Nessuna bonifica, nessuna colonia estiva, nessun concordato, nessuna opera assistenziale compensa la perdita della libertà. Per gli uomini e le donne liberi, s’intende; per i servi è tutt’altro discorso.

Non de solo pane vixit homo. Ci ha insegnato Gesù Cristo. Non sono cristiano, ma non importa. In quelle parole di Cristo c’è il significato più autentico del vivere come esseri umani. Oltre al pane per vivere come esseri umani è necessario essere liberi. Liberi moralmente, capaci di libertà morale, quella libertà che consiste nel saper ascoltare il comando della voce interiore della coscienza che impone di non farti mai servo di alcun uomo. I Cervi sono testimoni di questa idea di libertà, non vollero vivere servi di Mussolini e del suo regime. Avevano pane a volontà. Con il loro lavoro avevano una discreta agiatezza. Ma vollero lottare per la libertà, e per la libertà sacrificarono la vita.  Per questo meritano l’affetto e la gratitudine di ogni uomo e di ogni donna che abbia ancora un po’ di dignità morale.

I Cervi erano profondamente cristiani. Aldo si allontanò dal cristianesimo per accogliere suggestioni marxiste. Ma credo che le radici cristiane assorbite in famiglia non si seccarono. Quello dei Cervi era cristianesimo autentico. Carità, non dogma; amore della giustizia, non volontà di potenza; umana e pietosa comprensione, mai intolleranza. Poiché erano autenticamente cristiani divennero socialisti secondo l’insegnamento di Camillo Prampolini, l’apostolo che nei suoi comizi non si stancava di ripetere che i veri cristiani non possono non amare la giustizia, non possono accettare che l’avidità dei potenti costringa i deboli a vivere nella miseria, nell’ignoranza, nel degrado fisico e morale.

Camillo Prampolini capì che nel cristianesimo vive un’aspirazione diffusa di trascendenza e di idealità che non si può né si deve spegnere, ma indirizzare verso convinzioni e soprattutto verso modi di vivere più umani e morali. Se la Chiesa ha distorto l’aspirazione ideale che è alla radice del sentimento religioso, non per questo è impossibile ravvivarlo per “accenderne un fuoco di sentimenti e di speranze”.   Con queste convinzioni Prampolini si recava nei villaggi per parlare ai fedeli all’uscita della Messa, spesso sfidando l’indifferenza dei contadini e l’ostilità dei preti. Diceva loro: “Voi vi dite cristiani; ma vivete voi come tali? Vi amate, vi unite, vi soccorrete a vicenda secondo l’insegnamento di Cristo? Attuate i suoi precetti di fratellanza e di giustizia? Io vi dico che noi socialisti siamo più cristiani di voi, perché vi insegniamo ad unirvi, a difendervi dall’iniquità, a innalzarvi a una vita più degna”.   Con queste parole Prampolini combatteva al tempo stesso il Dio dei preti che insegnava ad accettare l’ingiustizia, e dava al socialismo un chiaro contenuto etico, innestandolo sulla lezione morale del cristianesimo. La religiosità di Prampolini e del movimento socialista che seguì il suo esempio era testimonianza che si appoggiava ad una tradizione religiosa per trarla a sbocchi tutto diversi dai consueti. Religiosa assai più, in quanto si prefiggeva di instillare un’idealità morale, un senso di dovere, una aspirazione superiore che va oltre le sole conquiste materiali. Religiosa per il suo contenuto morale, tanto da poter essere accostata all’insegnamento mazziniano per il largo spazio riservato ai valori etici.

Alcide Cervi si era formato su questi ideali socialisti. A questi ideali aveva educato i figli. Nel suo racconto autobiografico scrive: “Di Prampolini poi lessi un libretto che si chiamava La vera religione. Era fatto su un colloquio tra una contadina di nome Caterina e un socialista. – Perché dovrei essere mandato all’inferno? – dice il socialista – solo perché sono di un’altra idea? Tu che sei buona, non mi ci manderesti mica, figuriamoci Iddio che è più buono di te. Il più grosso peccato è quello di non sopportare che i nostri fratelli la pensino in religione diverso da noi. E puoi davvero pensare, Caterina, che Dio voglia mandare all’inferno tutti questi milioni di uomini non cattolici? Così veniva insegnata quella religione umana, quel rispetto degli altri, quel parlar civile. E in più, l’organizzazione e l’unità. ‘Associatevi, o contadini!’, era la sua parola d’ordine, e in un altro dialogo con Caterina il socialista diceva: – per migliorare le vostre condizioni c’è una sola via, la fine della concorrenza tra voi, l’associazione”.

Papà Cervi ribadisce la sua visione cristiana e socialista della vita anche in carcere, pochi giorni prima della fucilazione dei suoi figli. 

“Alla vigilia della fucilazione entrò Don Stefano per la confessione. – Noi non abbiamo peccati da pentirci – ho detto io e i figli. 

– E allora perché siete qui dentro?  

– Perché abbiamo fatto le opere di misericordia – rispondo io. 

– E quali sono queste opere di misericordia? fa il prete 

– Se non lo sa lei che è canonico, chi lo deve sapere? Abbiamo dato asilo ai perseguitati, da mangiare agli affamati, da bere agli assetati, abbiamo conservato i figli alle madri, gli uomini alle spose. Abbiamo predicato la giustizia contro i prepotenti fascisti e ladri, contro i ricchi carnivori di fatica e sangue. 

– Ma a parte la politica, tutto il resto sono cose dette dal Vangelo, non sono reato, disse il sacerdote. 

– Sono reato, e chi le fa ci muore. Gesù le ha dette e le ha fatte così è diventato crocifisso. Noi pure le abbiamo fatte e apposta siamo qui dentro. E poi per la politica, se quello che volete dire è quello che intendo io, non abbiamo paura e siamo comunisti, ma io vi dico che oggi comunista, socialista e cristiano sono una persona sola, sono l’uomo secondo giustizia! 

Don Stefano si impermalì e andò via alla svelta”.

Religione della libertà. Credo che questa sia la descrizione più appropriata dello spirito dei Cervi. Sono stati apostoli e martiri della religione della libertà che Croce aveva descritto nelle straordinarie pagine della Storia d’Europa nel secolo XIX pubblicata nel 1932. In questo studio Croce ribadisce che la religione della libertà è stata l’anima dei movimenti liberali, democratici e nazionali che segnarono la storia europea del secolo XIX. Quella religione ha raccolto e ha armonizzato la lunga storia della libertà e Ha dimostrato la sua forza con l’esempio dei suoi “poeti, teorici, oratori, pubblicisti, propagandisti, apostoli e martiri”. Ha saputo penetrare negli animi e muoverli all’azione e al sacrificio: “la figura eroica, che parlava ai cuori, era quella del poeta-milite, dell’intellettuale che sa combattere e morire per la sua idea; una figura che non rimase nei rapimenti dell’immaginazione e nei paradigmi educativi, ma apparve in carne ed ossa sui campi di battaglia e sulle barricate in ogni parte di Europa”. La religione della libertà, sottolinea Croce, raccoglieva molteplici aspirazioni religiose e filosofiche: “accanto e sopra di Socrate poneva l’umano-divino redentore Gesù, e sentiva di aver percorso le esperienze del paganesimo e del cristianesimo, del cattolicismo, dell’agostinismo e del calvinismo, e tutte le altre, e di rappresentare le migliori esigenze, e di essere purificazione, approfondimento e potenziamento della vita religiosa dell’umanità”.

La religione della libertà. Ha guidato anche l’impegno dei fratelli Carlo e Nello Rosselli che, come ho già ricordato, sono stati assassinati da sicari fascisti il 9 giugno del 1937. Carlo era perfettamente consapevole che il principio della vita come missione esige la forza di sacrificare la vita per un ideale. Lo rivela a sua madre in una lettera del 25 agosto 1928, da Lipari, dov’era confinato: “Anche tu presto andrai lassù [al cimitero di Paluzza dove vennero traslati i resti del fratello maggiore Aldo morto in guerra il 27 marzo 1916], forse sola, ma accompagnata dai due suoi fratelli, e ti sentirai come sperduta e sgomenta in quel mondo d’eccezione. E la tragedia tua si colorirà di tinte universali per la suggestione del numero, e ti verrà fatto di porti grandi interrogativi anche riguardo alla vita terrena. Ma qualunque sia per essere la conclusione sentirai di aver creato per davvero tre vite, tre forze, tre anime non volgari, che per quanto infime, non saranno numeri vani, non lasceranno l’ambiente così come lo trovarono. Bruceranno forse tutt’e tre, ma per aver cercato di avvicinarsi troppo alla luce”.

Vivere la vita come un cammino verso la luce anche a costo di bruciare troppo presto, è per Carlo il risultato della sua interiore persuasione: un comando della coscienza, scrive da Lipari alla madre, il 1° ottobre 1928: “I più hanno per solo scopo quello di farsi un posticino nel mondo come l’hanno trovato nascendo. I pochi tendono a modificarlo. E simili ambizioni si pagano ed è bene, necessario siano lautamente pagate. Forse a nulla approderai col tuo sforzo! Che conta? Avrai pur sempre modificato, migliorato, purificato te stesso, cioè il tuo vero mondo, che non è quello esterno e materiale, ma quello intimo, dello spirito”.

Quando i fascisti portano via i loro uomini, Genoeffa, Margherita, Iolanda, Irnes e Verina rimangono nella grande casa con undici bambini. Nessuno si stringe a loro nel dolore. Amici e compagni temono di fare la stessa fine dei Cervi. Sono sole, senza amici, senza compagni. “La verità, dichiara Irnes, anche se ne parlo raramente e con grande rammarico, è che nessuno ci disse niente, nessuno ci portò un atto, una sola parola di conforto, di solidarietà umana e cristiana. Nessuno. Nemmeno i compagni”.

Con la forza delle armi i fascisti hanno ucciso i Cervi. Hanno soffocato nei cuori dei contadini della campagna reggiana il sentimento della pietà, il sentimento che ci fa vivere come esseri umani. Hanno agito secondo la logica del potere totalitario, il potere che non si accontenta di sudditi docili, ma vuole dominare sudditi che non sono più esseri umani. Ce lo spiegato Primo Levi in una pagina grande e terribile di Se questo è un uomo.

Una mattina i tedeschi impiccarono un prigioniero che aveva tentato di fomentare una rivolta a Birkenau. “Tutti, narra Primo Levi, udirono il grido del morente, esso penetrò le grosse antiche barriere di inerzia e di remissione, percosse il centro vivo dell’uomo in ciascuno di noi: – Kameraden, ich bin der Letzte! – (Compagni, io sono l’ultimo!) Vorrei poter raccontare che di fra noi, gregge abietto, una voce si fosse levata, un mormorio, un segno di assenso. Ma nulla è avvenuto. Siamo rimasti in piedi, curvi e grigi, a capo chino, e non ci siamo scoperta la testa che quando il tedesco ce l’ha ordinato. La botola si è aperta, il corpo ha guizzato atroce; la banda ha ripreso a suonare, e noi, nuovamente ordinati in colonna, abbiamo sfilato davanti agli ultimi fremiti del morente. Ai piedi della forca, le SS ci guardano passare con occhi indifferenti: la loro opera è compiuta, e ben compiuta. I russi possono ormai venire: non vi sono più uomini forti fra noi, l’ultimo pende ora sopra i nostri capi, e per gli altri, pochi capestri sono bastati. Possono venire i russi: non troveranno che noi domati, noi spenti, degni ormai della morte inerme che ci attende Distruggere l’uomo è difficile quasi quanto crearlo: non è stato agevole, non è stato breve, ma ci siete riusciti, tedeschi. Eccoci docili sotto i vostri sguardi: da parte nostra nulla più avete a temere: non atti di rivolta, non parole di sfida, neppure uno sguardo giudice”.

Anche la morte dei Cervi è un atto d’accusa implacabile e giusto contro la mentalità del regime totalitario che uccide negli esseri umani anche il più tenue barlume di coscienza.

Le regole del discorso celebrativo prescrivono di chiudere con un’esortazione che infonda speranza. Saprei forse trovare le parole giuste, ma non corrisponderebbero ai miei sentimenti. In questi nostri tempi, l’ombra dei nazionalismi si allunga sempre più minacciosa in Asia, in Europa nelle Americhe. Non tutti i nazionalismi sono fascisti, ma tutti i fascismi sono nazionalisti. Diventano sempre più forti le ideologie che sono l’opposto degli ideali di libertà, di umana comprensione, di cristiana carità, di vero amor di patria per i quali hanno lottato e sono morti i Cervi.

Posso solo affermare, che io, gli amici dell’Istituto Cervi, e spero voi tutti che avete scelto di essere presenti a questa commemorazione, non smetteremo mai di impegnarci per tenere viva la memoria dei Cervi e per difendere gli ideali per i quali vissero e per i quali morirono. Parleremo; se nessuno ci ascolterà, noi continueremo a parlare. Scriveremo; se nessuno leggerà, noi continueremo a scrivere. Mostreremo fotografie e immagini; se nessuno le guarderà, noi continueremo a mostrarle.

Ce lo impone l’esempio dei Cervi. Ce lo impone la nostra coscienza di persone libere.

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